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il Manifesto: Un Centro Città Soltanto per Ricchi

Un Centro Città Soltanto per Ricchi

di Francesco Gastaldon

Lo stadio «Coca Cola Park» a Johannesburg è
uno dei più vecchi del Paese, nonché uno dei pochi
che sorge al centro di una comunità urbana
densamente abitata. A differenza delle zone
che circondano gli stadi in riva al mare di Cape Town e
Durban, o dello spazio aperto intorno all’altro stadio di
Johannesburg, Ellis Park è un quartiere al confine della
Inner City, abitato da residenti di varia estrazione sociale
e noto per essere una zona «degradata» e problematica.
Visto da lontano, lo stadio della finale mondiale
di rubgy 1995 si innalza sopra una distesa di edifici popolari,
molti dei quali abbandonati e occupati da persone
che non riescono a permettersi un affitto a prezzi
di mercato nella Johannesburg del 2010. Kate Tissington,
ricercatrice del Socio-Economic Rights Institute
of South Africa, lavorava fino all’anno scorso al Centro
di Studi Legali dell’Università del Witwatersrand
e ha seguito personalmente molti casi di sgombero di
occupanti abusivi. «Il nostro centro di supporto legale
ha assistito recentemente alcuni cittadini che vivevano
in un edificio abbandonato a Betrams, vicino allo stadio
di Ellis Park», spiega Kate. «Gli occupanti sono stati
cacciati dai proprietari con l’uso della forza e lasciati
senza nessuna sistemazione alternativa. L’obiettivo era
quello di abbattere i vecchi edifici per creare un Priority
Block commerciale e immobiliare vicino allo stadio
in vista del Mondiale, con un progetto portato avanti
da una partnership pubblico-privata». A febbraio, in
un altro caso che ha fatto molto discutere, un migliaio
di altri abitanti di Ellis Park ha ottenuto dal tribunale
il diritto a tornare temporaneamente nelle case da
cui erano stati allontanati senza preavviso, perché lo
sgombero era avvenuto in modo irregolare. «Episodi
di sgombero violento non avvengono solo nei pressi
del Coca Cola Park», prosegue Kate, «in tutta la città
ci sono proprietari che cacciano cittadini senza mezzi
economici dagli edifici in cui vivono, e la situazione sta
peggiorando con l’arrivo dei mondiali di calcio. Anche
se hanno formalmente il diritto di farlo, il risultato è
che inquilini indigenti e occupanti abusivi si ritrovano
in mezzo a una strada». Gli immobili e le aree intorno
agli stadi della Coppa del Mondo fanno davvero molta
gola ad investitori e speculatori. Anche se i visitatori
previsti sono inferiori alle speranze del governo sudafricano,
si tratterà comunque di centinaia di migliaia di
tifosi e turisti che si riverseranno nelle principali città
del paese. Ma le operazioni di «pulizia» della città dalla
presenza poco gradita di gruppi marginalizzati e di attività
economiche «informali» non sono certo una novità
degli ultimi mesi a Johannesburg.

Il Mondiale degli sgomberi

Se nei pressi dello stadio di Ellis Park i sogni di speculazione
dei proprietari immobiliari stanno diventando
più concreti con l’avvicinarsi del torneo, gli altri quartieri
centrali di Johannesburg sono da anni oggetto di una
serie di strategie di «riqualificazione». «Riqualificare»
significa rendere le aree centrali della città appetibili a
potenziali residenti benestanti, al mondo degli affari e
agli investitori, per riuscire a trasformare radicalmente
il volto di Johannesburg, farla divenire una vera «world
class city» e nascondere le enormi disuguaglianze e contraddizioni
della città. Questi piani coinvolgono primariamente
la Inner City, il centro storico della città. La zona
della Greater Johannesburg è cresciuta negli anni in
modo incontrollato, generando una megalopoli che va da
Jo’burg a Pretoria, circondata da un nugolo di autostrade
e tangenziali che collegano le varie parti della conurbazione.
La galassia di township e quartieri periferici,
da Soweto a Sandton, da Randburg ad Alexandra, ruota
però intorno alla Inner City, i quartieri centrali riservati
ai residenti e commercianti bianchi durante l’apartheid.
Con la fine del regime, tuttavia, la Inner City ha iniziato
a mutare il suo aspetto e nel 1991 era una delle aree
più miste del Paese (con il 54% di appartamenti abitati
da bianchi). Con il Business Act del 1991, che rimuove
le barriere ai venditori di strada nella zona, le attività
commerciali informali hanno iniziato a fluire nella Inner
City, permettendo ai sudafricani neri di avere un’attività
di sussistenza nel centro di Jo’burg. Forse spaventati dal
mutamento in atto nell’Inner City, i residenti bianchi più
benestanti sono fuggiti in massa (nel 1996 appena il 5%
dei residenti era bianco), molti edifici abbandonati sono
stati occupati da persone indigenti e nell’immaginario
della classe media i quartieri centrali sono diventati sinonimo
di degrado, povertà ed illegalità diffusa. Da qui,
il passo verso la retorica dell’emergenza per la Inner City
è stato breve. Perché Johannesburg potesse tornare ad
essere «il cuore dorato dell’Africa», il centro storico della
capitale economica sudafricana doveva cambiare radicalmente
aspetto. Nel 2002 il progetto «Jo’bur 2030»
si è posto come obiettivo quello di attrarre investimenti
e di stimolare la crescita economia, per trasformare il
centro di Johannesburg in una «città di livello mondiacittà
le» entro il 2030. Nel 2003 è stata elaborata la «Inner
City Regeneration Strategy», a cui è seguita la Inner City
Regeneration Charter del 2007, con l’esplicito scopo di
riportare attività economiche di alto livello, mondo degli
affari e residenti benestanti all’interno dell’area.

Una città privata

Queste dinamiche di gentrification e riqualificazione
comportano, nella pratica, un processo di progressiva
privatizzazione dello spazio pubblico. Nella Inner City,
ad esempio, sono stati creati recentemente cinque City
Improvement Districts (Cid), aree che ricevono servizi
aggiuntivi da parte della municipalità nei settori della
sicurezza, della pulizia e del commercio, per i quali i residenti
devono pagare una tassa extra all’amministrazione.
Se la maggior parte dei proprietari immobiliari si
dichiara favorevole, la tassa diviene obbligatoria e viene
eletto un consiglio dei proprietari che tratta con la municipalità
e con le partnership pubblico-private incaricate
di riqualificare la zona. Chi paga un affitto e non possiede
immobili, però, non ha alcun potere decisionale
per quanto riguarda l’istituzione o la gestione del Cid.
Le logiche economiche private non sono rappresentate
solo da questi «distretti prioritari». Non è segreto che le
politiche di «rigenerazione» in atto a Jo’burg strizzino
l’occhio agli investitori di capitali: dal 2004 al 2008 un
flusso di ben 750 milioni di dollari si è riversato nella Inner
City come investimento commerciale ed edilizio, e
per ridare lustro alle proprietà immobiliari e per progetti
pubblici di facciata. La ristrutturazione immobiliare è
direttamente collegata all’aumento dei prezzi degli appartamenti
e degli affitti, che a Johannesburg tanti non
riescono a pagare. La maggior parte degli abitanti della
Inner City, infatti, è ancora costituita da poveri, molti dei
quali vivono di attività economiche informali (primo fra
tutti il commercio di strada, un settore che in un Sudafrica
in cui un quarto della popolazione è disoccupata dà
lavoro a quasi un milione di persone) e occupano edifici
fatiscenti abbandonati da tempo dai proprietari. Sono
proprio questi residenti, insieme ai lavoratori irregolari,
che il processo di riqualificazione punta ad allontanare
dai quartieri centrali di Jo’burg, per rifare il look
alla città. Se si guarda alle statistiche, si capisce che il
problema abitativo non è marginale nel Paese. Secondo
i dati del governo, il bisogno di case di edilizia popolare
è di 2,1 milioni di unità in tutto il Sudafrica. Nel 2004,
il 23% delle famiglie sudafricane nelle aree urbane non
aveva accesso ad una abitazione «formale», e cioè viveva
in baraccopoli o occupando in modo precario degli
alloggi.

Nella Inner City di Johannesburg, uno degli strumenti
usati delle autorità per liberare gli edifici occupati è il
Better Building Programme (Bbp), con cui vengono identificati
e sgomberati edifici in cattivo stato che costituiscono
«un rischio per la salute degli occupanti», facendo
appello alle norme igieniche e di sicurezza contenute nel
National Building Regulation Act. L’appello alla salute,
alla sicurezza e all’igiene per attuare politiche di sgombero
e «rimozione» degli abitanti, ricorda tristemente la
retorica messa in campo dai governi segregazionisti per
liberare i quartieri cittadini dai neri durante l’apartheid.
Il fenomeno non è per nulla marginale: secondo l’urbanista
Tanja Winkler, che studia da anni le dinamiche di
gentrification a Johannesburg, dal 2002 al 2009 ci sono
stati ben 125 palazzi espropriati in base al Bbp, con l’effetto
collaterale di lasciare migliaia di persone senza tetto.
Secondo Winkler ben 25mila persone nella Inner City
potrebbero ritrovarsi in strada se il Bbp venisse applicato
fino in fondo. Al di là degli aspetti politici e della violazione
del diritto alla casa, tutelato dalla Costituzione
sudafricana, la strategia del governo cittadino è anche
piuttosto miope: nella maggior parte dei casi chi rimane
senza casa non può far altro che occupare altri edifici
della zona. Non si può negare che in molti casi questi
palazzi siano in condizioni veramente pessime, senza
servizi e con problemi strutturali, ma le politiche delle
autorità sono incapaci di fornire un’alternativa reale al
problema. «In città c’è una esigenza enorme di alloggi
a prezzi economici, che cresce costantemente», spiega
Kate Tissington, «e naturalmente l’avvicinarsi della
Coppa del Mondo sta peggiorando la situazione». L’altra
soluzione è spesso quella di «ricollocare» i residenti
sgomberati in unità abitative costruite dal governo o
dalla municipalità in aree periferiche, lontano dalla città.
Ma come ha documentato di recente l’organizzazione
Centre for Housing Rights and Evictions di Ginevra attraverso
interviste molto accurate, sono pochi quelli che
accettano questa alternativa. Vivere in una zona densamente
abitata e centrale come la Inner City, infatti, offre
possibilità che non si trovano nelle periferie sub-urbane,
come lavori occasionali, commercio di strada, vicinanza
a trasporti e servizi.

Una questione di democrazia

Appare evidente che lo sforzo della municipalità per
trovare strategie di «rigenerazione» per Johannesburg
non ha preso in considerazione le esigenze, i problemi e
le opinioni degli abitanti più in difficoltà della Inner City.
«In Sudafrica non si può pensare di trovare soluzioni
senza consultare i poveri», riflette Zodwa Nsibande del
movimento di abitanti delle baraccopoli Abahlali base-
Mjondolo («quelli che vivono nelle baracche» in lingua
Zulu). «La nostra Costituzione è fortemente a favore
dei poveri, e tutela il diritto alla casa come diritto fondamentale.
L’applicazione delle leggi da parte delle autorità,
però, è spesso contro gli interessi e i bisogni dei
più poveri». Abahlali baseMjondolo, movimento nato a
Durban nel 2005, lotta ormai in varie altre città del Paese
per cercare di ottenere il «diritto alla città» e alla casa
per shack dwellers e occupanti informali. Ma le organizzazioni
che protestano contro l’idea di una città chiusa
ai settori più marginalizzati della popolazione sono ormai
molteplici. In Sudafrica, il ricordo della segregazione,
del razzismo e dell’esclusione è ancora molto forte. Il
criterio di accesso ai centri cittadini non è più solo razziale,
come durante l’apartheid, ma è basato sulla classe
sociale a cui si appartiene e al proprio reddito. Nel 2007
l’associazione di venditori di strada StreetNet International
ha lanciato la campagna «World Class Cities for
All», con l’obiettivo di mettere in discussione l’idea per
cui una città di «classe mondiale» debba liberarsi delle
attività economiche informali e dei residenti più poveri.
Fra le altre organizzazioni che appoggiano la campagna
ci sono gruppi senza tetto, sex worker, ragazzi di strada,
inquilini indigenti e shack dweller. «Perché i poveri devono
essere ulteriormente marginalizzati e scomparire
con l’avvicinarsi dell’arrivo dei tifosi del Mondiale?» si
chiede Pat Horn, coordinatrice della campagna. In effetti,
il suo interrogativo sarà ancora valido dopo la fine
del torneo a luglio 2010. A Johannesburg, Durban, Cape
Town fino ad arrivare alle altre città del Sudafrica, sarà
possibile pensare ad uno sviluppo urbano in cui ci sia
spazio anche per i poveri?

Slum Africa

http://clandestino.carta.org/category/mondiali/

http://clandestino.carta.org/2010/03/11/slum-africa/

Slum Africa

Intervista di Francesco Gastaldon a S’bu Zikode, tra i promotori di Abahlali [Carta 40/09].

Abahlali baseMjondolo [«quelli che vivono nelle baracche» in Zulu], come raccontato su Carta 35/09, è un grande movimento sociale sudafricano nato alla fine del 2005, per protesta contro la mancata erogazione di servizi di base alle baraccopoli e la mancata distribuzione di case in città. Il movimento ha fin da subito denunciato l’atteggiamento delle autorità locali, incapaci di ascoltare le esigenze reali dei poveri urbani. Abahlali si è diffuso prima nel Kennedy Road di Durban, poi in molti altri insediamenti informali nella regione del KwaZulu-Natal e in quella di Città del Capo. Le battaglie principali di Abahlali si sono concentrate sull’evitare gli sgomberi indiscriminati delle baraccopoli. Uno dei punti centrali della lotta del movimento è la volontà di essere considerati come cittadini a pieno titolo e di essere consultati nelle decisioni che riguardano le proprie vite. Purtroppo, nella sua breve vita il movimento è stato vittima di molti episodi di repressioni e di tentativi di legittimazione da parte delle autorità pubbliche. La notte del 26 settembre una folla di quaranta uomini armati ha attaccato l’insediamento di Kennedy Road, dove sorgeva l’ufficio centrale di Abahlali, uccidendo tre persone, distruggendo molte abitazioni e facendo fuggire centinaia di persone. Secondo varie ricostruzioni, sembra che alcuni responsabili locali dell’African national congress [Anc] siano coinvolti nella pianificazione degli attacchi. S’bu Zikode, uno dei promotori e presidente di Abahlali, è rimasto senza casa e vive clandestino da quella notte, insieme alla sua famiglia, dopo essere stato ripetutamente minacciato di morte. Carta è riuscito a incontrarlo in una casa nei dintorni di Durban, dove è ospitato insieme a un’altra famiglia da alcuni amici.

Cosa sta succedendo nel movimento dopo gli attacchi?

Tutto è diventato più difficile. Nonostante non abbiamo più una sede centrale, continuiamo a incontrarci, ci sono assemblee e riunioni in vari insediamenti. Non possiamo soltanto nasconderci. Dobbiamo reagire e partecipare fisicamente alle assemblee e alle riunioni, nonostante noi promotori del movimento continuiamo a ricevere minacce di morte da parte di persone associate con l’Anc. Per noi è anche molto importante sapere chi è fuggito da Kennedy Road, chi si sta nascondendo, chi ha bisogno di cibo o di vestiti. Purtroppo le autorità non stanno facendo nulla per gli sfollati. Le chiese stanno dando del supporto molto apprezzato. Noi invece abbiamo delle richieste precise per le autorità. Abbiamo perso le nostre case e siamo rifugiati nella nostra città. Vogliamo che ci sia assegnata una casa, ne abbiamo il diritto. Vogliamo che ci siano restituito ciò che ci è stato sottratto. Chiediamo che i nostri figli siano accompagnati a scuola in modo sicuro, perché ora vivono lontano dalle loro scuole e non ci sono trasporti efficienti. Chiediamo che sia garantita la sicurezza di chi aderisce al Kennedy Road Development Committee e ad Abahlali. Vogliamo indietro la nostra dignità.

Cosa state discutendo in questo momento nelle assemblee del movimento?

Si discute degli attacchi e dell’attuale crisi, cosa significa per noi, come interpretiamo quello che è accaduto, come reagire. Ma discutiamo anche il modo in cui continuare a concentrarci sulla nostra lotta. Non vogliamo che questa crisi ci distolga dalle nostre battaglie. Non dobbiamo dimenticare che il nostro programma è di esercitare pressioni sulla municipalità perché ci vengano garantite abitazioni e servizi. Stiamo anche continuando a lottare a livello legale per i casi di sgombero e violazione della legge da parte delle autorità. Non ci sono purtroppo solo i problemi di Kennedy Road, ma anche quelli di tanti altri insediamenti. Continueremo ad affrontare i problemi delle comunità. Continueremo a chiedere terra e case in città per gli shack dwellers. Non ci arrenderemo e chiederemo ai residenti degli insediamenti di sostenerci.

Un paio di settimane dopo gli attacchi, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale lo Slums Act emanato dalla regione del KwaZulu-Natal nel 2007. Il caso era stato portato davanti alla Corte da Abahlali nel maggio 2009. Cosa prevedeva lo Slums Act?

La legge prevedeva che le persone fossero cacciate dai loro shack per essere ‘ricollocati’ nei cosiddetti ‘campi di transito’, in modo tale che gli insediamenti potessero essere rimossi. Inoltre, obbligava i proprietari privati a sgomberare chi occupava illegalmente i loro terreni, pena la condanna a cinque anni di carcere e a una multa di 20.000 rand, circa 2.000 euro. Le stesse pene erano previste per gli shack dwellers che tentavano di resistere agli sgomberi. Seguendo lo Slums Act, la municipalità aveva cominciato a censire gli shack negli insediamenti informali. Non contavano le persone, per garantire loro una casa alternativa, ma contavano gli shack per programmarne la demolizione!

Puoi spiegarci quindi che cosa significa questo giudizio della Corte costituzionale?

La sentenza della Corte definisce la sezione 16 dello Slums Act in contrasto con la Costituzione che garantisce il diritto alla casa. Questo significa, in breve, che la municipalità non può demolire gli shack senza un ordine del tribunale, sia in città che nelle zone rurali. Significa che la municipalità e chi possiede la terra non hanno più diritto di sgomberare le persone dalle loro abitazioni senza un ordine del tribunale.

Per quale ragione, secondo voi, il governo della regione del KwaZulu-Natal aveva emanato quella legge?

Ci sono varie ragioni. La prima è l’errata interpretazione degli obiettivi fissati dalle Nazioni unite nei Millenium Development Goals. Uno degli obiettivi chiede che si migliorino le vite di almeno 100 milioni di shack dwellers entro il 2020. Il KwaZulu-Natal l’ha interpretato come ‘eliminare tutti gli insediamenti informali’ entro il termine del 2014, senza occuparsi della vita delle persone. Allo stesso tempo, le autorità vogliono costruire una ‘world class city’, una città senza slum. Questa idea si sta rafforzando con i preparativi dei mondiali di calcio 2010: il governo vuole che nelle principali città non ci siano baraccopoli, così i turisti internazionali non le vedranno quando saranno in Sudafrica nel 2010. Stanno creando delle città nelle quali essere poveri è un crimine. Non capiscono che non ci possiamo permettere delle case ‘normali’, e quindi costruire shack è l’unica alternativa. Come pensano di eliminare le baraccopoli senza garantire un lavoro e una casa alternativa agli shack dwellers?

Cosa significa questa vittoria per voi, come movimento?

Non è solo una vittoria per il movimento! Lo è per tutti i cittadini del Sudafrica e per le generazioni future. La Corte costituzionale ha stabilito un precedente fondamentale per quanto riguarda il diritto a non essere sgomberati. Abahlali ha dimostrato che la sua campagna a difesa dei diritti umani era giusta ed era coerente con la Costituzione: questo significa che la nostra voce deve essere rispettata. Senza Abahlali, il governo locale avrebbe potuto comportarsi in modo incostituzionale. Questo vuol dire che il nostro ruolo è fondamentale, perché difende i diritti dei più poveri fra i sudafricani.

Oltre al caso dello Slums Act, altre volte siete ricorsi a vie legali per contrastare gli sgomberi o altre azioni delle autorità, con il supporto di alcuni centri legali progressisti. Come si inscrivono le battaglie legali nella strategia complessiva del movimento?

Noi non siamo avvocati, il movimento non è uno studio legale. La nostra lotta continua indipendentemente dai giudizi dei tribunali. I problemi che stiamo affrontando non sono di natura tecnica, sono politici. Di conseguenza, dobbiamo affrontarli con strumenti politici. Non si deve cedere alla tentazione di incrociare le braccia e dire ai nostri amici avvocati ‘andate avanti voi’. Noi siamo un movimento sociale. L’utilizzo degli avvocati e dei tribunali è l’ultima risorsa. Prima si deve tentare di lottare con strumenti politici, e solo in ultima istanza utilizzare le vie legali, dando istruzioni agli avvocati basandosi sulle nostre richieste politiche. E anche una sconfitta in tribunale non farà venire meno le ragioni della nostra lotta.

Cosa intendi quindi per ‘lotta con strumenti politici’?

Dobbiamo avere strategie politiche per affrontare il potere: le assemblee di Abahlali, le proteste, i «camps» [grandi assemblee con discussioni che durano tutta la notte], i raduni di massa…sono tutte strategie politiche all’interno della nostra lotta. La nostra battaglia è giocata anche sul piano dell’immaginario. È importante mobilitare il maggior numero di persone dalla nostra parte, per vincere la lotta politica. La mobilitazione e l’organizzazione delle persone sono fondamentali per la nostra strategia di lotta. Ciò che scuote lo Stato, ciò che lo minaccia, è il numero di cittadini che lo contesta. In questo modo il potere di chi governa è messo in discussione.

Qualche giorno fa, in alcuni insediamenti della città sono stati arrestati dei residenti perché avevano attivato connessioni illegali all’elettricità. Cosa pensi di questo comportamento della polizia e delle autorità?

Questi problemi sono affrontati solo da un punto di vista tecnico-legale. Abahlali chiede da tempo l’elettricità per tutti gli insediamenti, anche per evitare la piaga degli incendi. La regione ha invece deciso nel 2001 la sospensione dell’elettrificazione delle baraccopoli perché gli insediamenti sono considerati ‘provvisori’. Le autorità non cercano di comprendere la ragione per cui le persone si connettono illegalmente all’elettricità, le necessità degli shack dwellers, ma tentano solamente di reprimere e di arrestare. Se la connessione illegale è un crimine perché ‘ruba’ l’elettricità, allora è un crimine allo stesso modo quello delle autorità che non garantiscono i servizi agli insediamenti.

Puoi dirci qualcosa sulle relazioni di Abahlali con altri movimenti, sia in Sudafrica che a livello internazionale?

In Sudafrica abbiamo fondato la Poor People’s Alliance insieme al Rural Network, al Landless People’s Movement della zona di Johannesburg e all’Anti Eviction Campaign di Città del Capo. Lavoriamo insieme a loro perché la nostra lotta e i nostri obiettivi sono gli stessi, cambia solo il contesto. Abbiamo anche buoni rapporti con la Treatment Action Campaign e con l’Anti Privatization Forum. Fuori dal Sudafrica, abbiamo molti amici. Dei nostri delegati sono andati questa estate a New York e nel Regno unito, per incontrare gruppi e movimenti che lottano su questi temi. Gli anni scorsi siamo stati in Brasile e a Nairobi per il Forum sociale mondiale. Per noi è molto importante costruire alleanze a livello globale, per formare un fronte comune contro le politiche della globalizzazione neoliberista. Per questo, ci piacerebbe anche venire in Italia a incontrare i movimenti e le associazioni che lo vorranno. La proposta di Carta, organizzare un ‘mondiale al contrario’ ci piace molto: dobbiamo soltanto pensare bene al periodo, perché durante le partite del mondiale noi vogliamo essere in Sudafrica, per sfruttare quella straordinaria visibilità mediatica per portare all’attenzione del mondo le nostre rivendicazioni.

Sud Africa ha già perso

Sud Africa ha già perso

di Francesco Gastaldon e Filippo Mondini

A CAPE TOWN, negli ultimi mesi, sono stati espulse almeno ventimila persone dai vari «settlements» [insediamenti informali] della città per essere spostate di forza in casette costruite tra l’aeroporto e la città. L’opera di «beautification» [«abbellimento»] è cominciata. Ma questo la propaganda per i mondiali di calcio 2010 in Sud Africa non lo dice. È anche così che le autorità sudafricane si preparano a ospitare i mondiali in programma tra giugno e luglio. Nell’immaginario collettivo italiano il Sud Africa è noto per due cose: l’African national congress [Anc], il parti-to-Stato di Mandela, e i campionati del mondo 2010. Mandela e il suo partito fanno venire in mente momenti gloriosi di speranza e di liberazione, di lotta e di sacrificio. I mondiali di calcio, invece, fanno venire in mente una immagine di Africa che ce l’ha fatta, che finalmente ha raggiunto standard occidentali. E liberisti. Purtroppo questi due grandi miti, a un’osservazione meno superficiale, si rivelano ennesimi giganti dai piedi d’argilla. L’Anc ha ormai rivelato la sua natura antidemocratica. La repressione e gli omicidi politici contro il movimento sociale Abahlali baseMjondolo sono lì a ricordarlo [si vedano gli articoli pubblicati negli ultimimesi su Carta e su www.carta.org].

I campionati del mondo, al contrario, sono un mito più difficile da smontare. La potente retorica sudafricana ha fatto velocemente il giro del mondo e ormai anche in Italia si pensa ai prossimi mondiali di calcio come a un momento di redenzione collettiva, una grazia millenaria, una benedizione piovuta sul continente africano. Quello di cui non si parla, in Italia come in Sud Africa e in altri paesi, è l’impatto che questo mega-evento avrà sulla popolazione e soprattutto sui poveri. In passato i mondiali di calcio come le Olimpiadi hanno
sempre lasciato enormi debiti da pagare e strutture quasi inutilizzabili. La città di Montreal, ad esempio, ha impiegato circa trent’anni per ripagare il debito contratto in occasione delle Olimpiadi. Che cosa succederà in Sud Africa? Certamente, quello che il campionato del mondo non farà sarà ridurre le enormi disuguaglianze che il liberismo ha prodotto sul suolo africano, né eliminerà le guerre del petrolio in Darfur o nel Delta del Niger, né quelle del coltan [il minerale necessario per il telefonini] in Congo. Il campionato ha già consentito alle élites locali l’opportunità di riorganizzare le città secondo i loro interessi. Ma questo non è un fatto nuovo. Alcuni studi hanno dimostrato che i Giochi olimpici hanno consentito alle varie municipalità di sfrattare dalla città più di due milioni di persone, negli ultimi vent’anni. In occasione delle Olimpiadi di Pechino, furono sfrattate più di un milione di persone.

A proposito di nuovi stadi: poco più di un mese fa, il derby locale di Durban fra Maritzburg united e AmaZulu ha inaugurato ufficialmente il nuovo stadio Moses Mabhida, un’imponente opera architettonica, considerata uno dei migliori e più affascinanti impianti sportivi al mondo. Il nuovo stadio di Durban è uno dei fiori all’occhiello del Comitato organizzatore dei mondiali di calcio. Con più di settantamila posti a sedere, il Moses Mabhida sfoggia un arco panoramico a centodieci metri d’altezza che funge da ponte fra le due curve, con un trenino di produzione italiana che permetterà ai visitatori di ammirare il panorama della baia dall’alto, e un campo di erba verdissima importata dagli Stati uniti. Come scriveva qualche giorno fa un quotidiano locale, «nulla è stato trascurato per garantire a Durban uno dei migliori stadi al mondo». L’opera è costata 3,1 miliardi di rand sudafricani, circa duecentottanta milioni di euro, e sorge a poche centinaia di metri dal «vecchio» stadio di Durban.

In Sudafrica la gente comune chiama queste opere «white elephant», creazioni dal costo spropositato e dalla dubbia utilità: la certezza è che dopo luglio 2010 gli stadi di Durban, Cape Town, Johannesburg e altre città giaceranno inutilizzati e continueranno ad assorbire ingenti quantità di denaro per la manutenzione, sottraendolo ai programmi sociali per i più poveri. Il Sudafrica è il paese delle contraddizioni. Chissà se arrampicandosi sull’arco panoramico del Moses Mabhida si riusciranno a scorgere le abitazioni degli «shack dwellers», costruite di cartone pressato e legno inchiodato e con i tetti di lamiera che sorgono a decine di migliaia negli insediamenti informali di Durban e dintorni, proprio quegli «shack settlement» che le autorità vorrebbero «sradicare» prima di giugno per non turbare i tifosi.

La vera domanda allora è se un evento sportivo ed economico come i mondiali di calcio 2010 porterà benefici reali alla popolazione sudafricana, a quei milioni di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà o che costruiscono il proprio «shack» ai margini delle città. Naturalmente, la propaganda del governo e della Fifa, la Federazione internazionale delle associazioni di calcio, descrive la coppa del mondo come un’occasione unica per il paese. Una delle illusioni più frequenti riguarda l’aumento dell’occupazione: l’evento dovrebbe aiutare quel 31 per cento di disoccupati [dato della fine del 2009] a trovare un lavoro. Questo mito, tuttavia, si sta dimostrando infondato, e ormai anche la diecistampa sudafricana se ne sta rendendo conto. Le assunzioni, nella maggior parte dei casi, sono state a brevissimo termine, lavori estremamente precari senza alcuna prospettiva di un impiego duraturo.

Solo a Durban, migliaia di operai edili e lavoratori delle costruzioni hanno già perso il lavoro dopo il completamento del nuovo stadio, e in tutto il paese saranno decine di migliaia quelli che riceveranno come regalo del nuovo anno un licenziamento. Il portavoce di uno dei principali sindacati sudafricani ha detto pochi giorni fa che più di metà degli iscritti si ritroverà disoccupato in pochi mesi, con la fine dei progetti faraonici pre-2010.

Al di là della propaganda, dunque, per i cittadini più poveri del Sud Africa la Coppa del mondo comporta conseguenze drammatiche. Per citare solo alcuni esempi, negli ultimi anni a Durban migliaia di venditori di strada sono stati cacciati dai mercati in cui operavano da anni, per fare spazio ai venditori ufficiali associati alla Fifa e per costruire nuovi parcheggi. A Cape Town e Johannesburg le zone intorno agli impianti sportivi sono state «ripulite» da senza tetto e baracche, e nel KwaZulu-Natal il governo ha approvato il famigerato Slums Act per imprimere un’accelerazione agli sgomberi delle baraccopoli, con l’obiettivo dichiarato di fare il «lifting» alla città di Durban e renderla una «world class city». Zodwa Nsibande, tra i promotori di Abahlali baseMjondo, spiega che «lo Slums Act che abbiamo sconfitto ricorrendo alla Corte costituzionale era stato scritto pensando ai mondiali del 2010». La situazione non è migliore fuori dalle città, in zone come le aree rurali dello Zululand, sulla costa che da Durban porta fino al Mozambico. L’organizzazione Rural Network, che lotta per il diritto alla terra degli abitanti delle aree rurali, sta resistendo ai progetti di «sviluppo» per l’area di Macambini che il governo locale sta promuovendo insieme a una multinazionale con sede a Dubai. Secondi i piani, diecimila famiglie perderebbero le case, i campi, i villaggi e il bestiame, per fare spazio a parchi a tema e hotel in una zona grande sedicimila ettari. Quattro cliniche pubbliche etrenta scuole verranno abbattute per costruire le strutture.
Il tutto, naturalmente, per attirare i turisti in vista del giugno 2010. Mavuso, coordinatore del Rural Network, commenta: «Distruggere scuole e ospedali, con un’operazione calata dall’alto: questo è lo sviluppo per il governo!».

A Johannesburg, Capetown, Bloemfontein, Durban, la forza dei bulldozer prepara con prepotenza la via ai mondiali. Come a Mbombela, che ospiterà alcune partite del mondiale in uno stadio da 45 mila persone nuovo. Un impianto bellissimo, costruito su 118 ettari di terra. Peccato che fosse una terra ancestrale abitata dagli Matsafeni una tribù Swazi che è stata forzatamente deportata. Chissà se rimarrà qualche traccia della loro presenza quando i turisti andranno da Mbombela al vicino Kruger Park.

La logica del governo, per ripulire le città e ripianificare, è creare Transit Camps, dove poter ospitare, loro dicono momentaneamente, finché non saranno pronte le case, i poveri. Ma i Transit Camps in Sud Africa fanno Paura e puzzano di apartheid, segregazione e oppressione.

Erano le stesse misure adottate da Peter Botha o Frederick De Klerk [presidenti del Sud Africa negli anni ottanta] per controllare meglio la popolazione. Ma questo l’Anc se l’è scordato e ripropone le stesse misure a Durban, dove centinaia di famiglie dovrebbero essere ridislocate a Syanda, a Johannesburg, Cape Town e in tutto il paese. Clamoroso è il caso di Johannesburg, dove dovrebbero essere sfrattate diverse migliaia di persone dal centro città. Ma gli abitanti si stanno organizzando per resistere. Dalla loro parte è anche un pezzo importante delle chiese sudafricane. Il KwaZulu Natal Church Leaders Group, in un comunicato diffuso dopo la repressione di Kennedy Road in settembre [in cui furono uccise tre persone e molte furono ferite], ha scritto che i sudafricani non sono pronti per farsi prendere in giro da illusori discorsi di sviluppo. I leader religiosi, tra cui il cardinale Wilfrid Napier, sostengono che la logica che muove la coppa del mondo è dettata dagli interessi delle élites e delle multinazionali. I poveri delle periferie non hanno posto in questo modello. Mzonke Poni, leader di Abahlaly, conclude: «Non ho tempo di pensare al calcio. Ho problemi più grandi».

Gli autori del reportage

Francesco Gastaldon, laureato in cooperazione e sviluppo all’università di Bologna, ha realizzato alcune ricerche a Durban, in Sud Africa, sugli insediamenti informali della città. Filippo Mondini è missionario comboniano a Castel Voltuno [Caserta] e ha vissuto molti anni in Sud Africa. Diversi loro articoli sono leggibili su carta.org.

La politica dei baraccati contro l’apartheid che segrega i poveri

La politica dei baraccati contro l’apartheid che segrega i poveri

IL SUDAFRICA DEL DOPO APARTHEID È DIVISO IN DUE. DA UNA PARTE C’È LA VERITÀ UFFICIALE DELL’ANC, IL PARTITO-STATO, AUTORITARIO E NEOLIBERISTA. DALL’ALTRA, IL NUOVO MOVIMENTO DELLE TOWNSHIP, ABAHLALI, CHE ORGANIZZA LA POLITICA DAL BASSO.

DI FILIPPO MONDINI E FRANCESCO GASTALDON

KLIPTOWN, NELLA ZONA DI SOWETO, è ora una grande estensione di baracche fatte di lamiera e cartone, fogne a cielo aperto e un livello di disoccupazione che sfiora il 72 per cento. Ma questa ex township ha rappresentato in passato il simbolo della volontà rivoluzionaria di milioni di sudafricani. Nel 1955, il sobborgo ha ospitato i delegati del popolo chiamati a elaborare la Freedom Charter, che ha ispirato per decenni la lotta anti-apartheid. Fu un processo democratico che coinvolse i sudafricani oppressi dal regime, dalle campagne alle città. Cinquantamila volontari percorsero il paese in lungo e in largo, chiedendo alla popolazione segregata quale fosse la sua visione per il Sudafrica del futuroe ottenendo come risposte che «la terra deve essere ridistribuita», che «l’istruzione deve essere gratuita e obbligatoria», «libertà di movimento e diritto di residenza» e «l’eliminazione di tutti i ghetti».

Negli anni ottanta il manifesto fu ripreso in modo radicale da una nuova generazione di militanti che si riunirono sotto lo United democratic front. Il movimento vedeva nella democrazia non solo l’obiettivo per il Sudafrica postapartheid ma anche la propria modalità di lotta, e questo ebbe una portata rivoluzionaria incredibile. La gente organizzò comitati di strada e di quartiere, fino a rendere ingovernabili le township e minacciando seriamente la sopravvivenza del regime della minoranza bianca. Durante l’apartheid i bianchi avevano standard di vita paragonabili alla California, i neri a quelli del Congo. Dopo quindici anni di democrazia, le contraddizioni non si sono attenuate. Secondo i dati economici più recenti, il Sudafrica è il paese più ineguale al mondo. Nonostante le speranze che la transizione aveva portato con sé, per la maggioranza della popolazione le condizioni di vita sono peggiorate, dal 1994 a oggi.

All’interno del Sudafrica esistono ancora due mondi distinti, e questa contraddizione rende la giovane democrazia di questo paese un gigante dai piedi d’argilla. L’African national congress [Anc, il partito-Stato al governo dal ’94] è di fatto responsabile di tutto questo, con le sue promesse non mantenute e con i suoi tradimenti degli ideali della lotta. Ma la storia del Sudafrica post-apartheid parte da lontano, dall’epoca dei negoziati che segnarono la fine del regime razzista. I negoziati si svilupparono lungo due binari, uno politico e uno economico. Mentre l’opinione pubblica si concentrava sui colloqui politici, sugli incontri tra l’Anc di Nelson Mandela e il National Party di De Klerk, gli altri negoziati venivano definiti «tecnici» e «amministrativi ». Il delegato principale per l’Anc era Thabo Mbeki, che aveva trascorso parte dell’esilio a Londra imparando lezioni di liberismo dal governo Thatcher. Il risultato fu che l’Anc conquistò il potere politico, abbandonando però i principi della Freedom Charter e sposando il credo delle politiche economiche neoliberiste.

La Banca centrale, indipendente dal governo, fu affidata a Chris Stals, lo stesso uomo che l’aveva guidata sotto l’apartheid. Invece di nazionalizzare le miniere, come era stato promesso durante la lotta, Mandela e Mbeki iniziarono a incontrarsi regolarmente con Harry Oppenheimer, ex presidente di Anglo-American e De Beers. Soprattutto, l’Anc accettò di pagare il debito internazionale contratto dal governo precedente, assicurando stabilità finanziaria ai grandi investitori e causando l’impoverimento di grandi parti della popolazione. Così, invece di compensare le vittime del la repressione – come chiese la Commissione di Verità e Riconciliazione presieduta da Desmond Tutu – la nuova democrazia ha ceduto alle richieste del Fondo monetario e della Banca mondiale. Con l’avvento di Mbeki alla presidenza [nel 1999] la svolta liberista diventa aperta e radicale: le nuove politiche economiche del Gear [Growth employment and redistribution programme] hanno portato a privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, flessibilità nel mercato lavoro, più libertà di scambio e meno controlli sui flussi di denaro. Le conseguenze sono state devastanti: per citare solo alcuni esempi, dalla fine dell’apartheid sono stati collegati alla rete idrica nove milioni di persone, mentre i tagli ne hanno colpite dieci milioni; il tasso di disoccupazione a novembre 2009 è al 31 per cento; la povertà è più profonda e istituzionalizzata che durante il regime segregazionista e la ricchezza sempre più polarizzata, con un gruppo ristrettissimo di persone che detiene la maggior parte del reddito nazionale; quasi un milione di persone sono state sfrattate dalle zone rurali e il numero degli

abitanti delle baraccopoli è aumentato vertiginosamente, e secondo alcune stime recenti circa un sudafricano su sei vive in un insediamento informale. Il movimento degli «shack dwellers» Abahlali baseMjondolo nasce alla fine del 2005, in questo contesto di rabbia e senso di tradimento delle promesse dell’Anc, inspirandosi agli ideali della lotta anti-apartheid dell’United democratic front [Udf]. L’ideale centrale della lotta dell’Udf era che il Sudafrica doveva appartenere a tutti quelli che ci vivevano, a tutti quelli che lottavano contro il regime. La lotta per una società non-razziale non poteva essere concessa dall’alto, ma andava costruita giorno per giorno attraverso l’azione politica popolare. Una questione cruciale, per il Sudafrica post-apartheid, è il passaggio dall’idea di nazione costruita su basi non razziali a quella della «rainbow nation»: l’idea astratta della «nazione arcobaleno» è stata costruita dalle narrative dello Stato, calata dall’alto da tecnocrati ed «esperti». Come sostengono diversi studiosi, ad esempio Richard Pithouse e Franco Barchiesi, a quindici anni dalle prime elezioni del ’94 appare evidente che per l’Anc il post-apartheid è un’epoca «postpolitica», in cui la solidarietà nazionale della «rainbow nation» deve prevalere sulle rivendicazioni sociali e politiche. L’unica «vera lotta», quella contro l’apartheid, è stata già vinta e la narrazione ufficiale tenta di riscrivere la storia della resistenza come una lotta condotta solo dall’Anc. Secondo l’ideologia ufficiale, ogni critica al governo e all’Anc equivale a un tradimento dei propri liberatori. E proprio i «liberatori» dell’Anc cercano di sfruttare il mito della Nazione e della lotta all’apartheid per nascondere la crescente povertà, la gestione verticistica e tecnocratica del potere e i tradimenti rispetto alle promesse fatte all’indomani della presa del potere. In quest’ottica, il cosiddetto «service delivery», la fornitura di servizi di base alle baraccopoli e ai cittadini più poveri, è una sorta di dono erogato dal- l’alto, in modo paternalistico e autoritario. Abahlali ha ben chiaro il problema di questa gestione del potere, e ne discute ampiamente nelle assemblee del movimento. Secondo Zodwa Nsibande, attivista di Abahali, «le comunità degli insediamenti devono essere consultate dalle autorità per quel che riguarda i piani di fornitura di servizi o costruzione di case popolari. Ma i politici non hanno rispetto per l’intelligenza dei poveri, credono che non siamo in grado di pensare autonomamente». Il presidente eletto del movimento, S’bu Zikode, dice che «il pensiero tecno- cratico esclude la maggioranza delle persone e viene supportato dalla violenza quando i poveri insistono sul loro diritto di parlare e di essere ascoltati. Da una parte c’è un consulente con il suo computer portatile e dall’altra un giovane ubriaco con una pistola in mano. Possono sembrare a prima vista diversi, ma entrambi servono lo stesso sistema, un sistema dove i poveri devono essere buoni e starsene al loro posto senza pensare o parlare». Nel post-apartheid si è passati dai comitati popolari di quartiere alla «società civile», formata da organizzazioni che servono a creare consenso intorno a interessi specifici. La lotta di Abahlali è radicalmente diversa da quella dei tecnocrati delle Ong. Alla «politica dei partiti» Abahlali contrappone una politica popolare, che i membri del movimento descrivono come una «politica vivente»: l’idea di un modo di fare politica che tutti possono capire e alla cui definizione tutti possono partecipare, opposto in modo radicale al linguaggio burocratico e tecnico che viene usato dalle autorità municipali, dai partiti politici e dalle Ong. La politica di Abahlali, spiegano gli attivisti, abbraccia l’universale. Al centro non ci sono interessi particolari ma i poveri, le persone. Le verità forgiate dalla lotta, elaborate e pensate democraticamente nelle assemblee, sono universali. Dopo le recenti violenze contro il movimento [che Carta ha raccontato: www.carta.org] S’bu Zikode ha detto che «questa democrazia non si cura dei poveri, perciò è nostra responsabilità farla funzionare per tutti i poveri, costruire la forza dei poveri e ridurre quella dei ricchi. Dobbiamo lottare per democratizzare tutti i posti nei quali viviamo, lavoriamo, studiamo e preghiamo». Un’altra caratteristica fondamentale della lotta del movimento è la sua fedeltà. Nella teorizzazione del filosofo politico Alain Badiou, la fedeltà è il «tentativo di sostenere nel pensiero le conseguenze dell’evento». È il rifiuto di tornare allo «status quo ante». La «fedeltà all’evento» non è scontata: richiede un «interesse-disinteressato» da parte dei partecipanti. Non c’è certezza, in questo processo. Se le «avanguardie» politiche conoscono la strada da percorrere, il movimento non la conosce a priori. I membri di Abahlali affermano che «l’alternativa, la direzione della nostra lotta, uscirà dal nostro pensiero, dalle riflessioni che facciamo insieme nelle nostre comunità, in cui ci educhiamo a vicenda e pensiamo la nostra lotta». Abahlali baseMjondolo, quindi, non chiede allo Stato l’elemosina di servizi pubblici e abitazioni popolari. Le richieste pratiche del movimento puntano a vedere realizzati i diritti sociali fondamentali promessi nella Costituzione sudafricana. Le rivendicazioni del movimento sono più pro fonde, e puntano a cambiare i termini stessi dell’inclusione dei poveri della società sudafricana, per trasformare il regime tecnocratico del post-apartheid in una democrazia realmente partecipata da tutti i cittadini. La lotta è per affermare la dignità dei poveri in senso più ampio, sostenendo con forza la loro capacità di esprimersi sulle politiche e sulle scelte che riguardano le loro vite.

Carta: Ancora violenze e intimidazioni contro il movimento Abahlali

http://www.carta.org/campagne/dal+mondo/africa/18983

Ancora violenze e intimidazioni contro il movimento Abahlali
Francesco Gastaldon
[27 Novembre 2009]

Altre case di attivisti sudafricani sono state distrutte nell’insediamento di Kennedy Road, a Durban, mentre i «Kennedy 13» arrestati in settembre continuano ad essere trattenuti senza processo.

Durban, Sudafrica. La repressione e la violenza contro il movimento di «shack dwellers» Abahlali baseMjondolo [«quelli che vivono nelle baracche» in lingua zulu] non si ferma. Il teatro delle violenze è ancora una volta l’insediamento informale di Kennedy Road, dove Abahlali aveva il suo ufficio centrale e dove vivevano alcuni dei principali leader del movimento fino al 27 settembre. Come Carta ha raccontato, la notte fra il 26 e il 27 settembre, mentre era in corso un’assemblea notturna, una folla di circa quaranta persone aveva assaltato il vicino insediamento di Kennedy Road, gridando slogan contro i leader di Abahlali e distruggendo le loro case. Da quel giorno, vari membri del movimento, fra cui i suoi leader principali, vivono in clandestinità con le loro famiglie.

La sera del 20 novembre le case di due leader del Kennedy Road Development Committee [Krdc, la sezione di Abahlali a Kennedy Road] sono state distrutte da uomini non ancora indentificati. Le poche proprietà che le famiglie non erano ancora riuscite a recuperare sono state rubate. La famigerata polizia di Sydenham, responsabile degli attacchi a Pemary Ridge di dieci giorni fa [vedi link a fianco], non è intervenuta e non ha identificato alcun responsabile.

Secondo il comunicato di Abahlali, i responsabili sono gli stessi che hanno attaccato il movimento la notte del 26 settembre, che hanno cacciato i rappresentanti eletti del movimento e che hanno «costituito un nuovo comitato legato all’African national congress [Anc, il partito-Stato al governo]» per gestire la vita della comunità. Ci siamo recati a Kennedy Road pochi giorni dopo gli attacchi, in una situazione ancora molto tesa. Uno dei pochi residenti legati ad Abahlali che vive ancora nell’insediamento [decine di famiglie hanno abbandonato Kennedy Road da fine settembre ad oggi] si guarda intorno circospetto e ci dice sussurrando che «la situazione e’ ancora molto pesante».

Le nuove violenze a Kennedy Road avvengono in un clima di forte attesa per la sorte dei «Kennedy 13», i membri e simpatizzanti di Abahlali arrestati nei giorni successivi al 26 settembre e accusati di vari crimini fra cui omicidio, violenza pubblica danneggiamenti. In pratica, invece di indentificare e arrestare i membri della folla armata che ha attaccato Abahlali a Kennedy Road, la polizia ha arrestato tredici persone legate al movimento, alcune delle quali si trovavano a chilometri di distanza la notte degli attacchi. Ma la vicenda giudiziaria dei Kennedy 13 è ancora più scandalosa. I tredici arrestati sono detenuti in una delle peggiori prigioni della città, in attesa che venga formulata contro di loro una chiara imputazione.

Dall’inizio di ottobre, i Kennedy 13 sono apparsi per sei volte in tribunale per chiedere che venga concessa loro la libertà su cauzione fino a quando non verrà celebrato il processo. Per sei volte, il giudice ha rimandato la decisione, senza concedere né respingere la richiesta di libertà su cauzione.

La vicenda giudiziaria ha attirato l’attenzione di vari leader religiosi, che la settimana scorsa hanno organizzato una manifestazione di preghiera fuori dal tribunale, per testimoniare la loro solidarietà agli arrestati e alle loro famiglie. Fra questi c’era il vescovo anglicano di Durban, Rubin Phillip, miliante anti-apartheid e leader a suo tempo del movimento del Black Consciousness di Steve Biko. In un durissimo comunicato, Phillip ha dichiarato che la vicenda è «uno scandalo legale e morale». Secondo Phillip «i Kennedy 13 sono detenuti da due mesi senza processo e senza alcuna prova contro loro», insomma si tratta di un «un processo politico, in cui le normali procedure che regolano l’amministrazione della giustizia non sono seguite». Nello stesso comunicato, il vescovo si unisce alle richieste di Abahlali per una commissione di inchiesta indipendente sui fatti del 26 settembre. La nuova udienza per i Kennedy 13 è programmata per oggi, venerdì 27 novembre.