5 November 2007
Abahlali BaseMjondolo: La politica della vita
di Filippo Mondini*
Il Comitato organizzatore assicura che rispetterà le richieste della Fifa, la Federazione internazionale delle associazioni calcistiche, che vorrebbe la conclusione dei lavori entro un anno e mezzo. Due stadi, costi quel che costi, saranno già pronti per la Confederation Cup del 2008. Secondo gli organizzatori del campionato del mondo di calcio in Sudafrica non ci sono problemi per i 600 milioni di euro stanziati per la costruzione di nuovi stadi, di cui 210 milioni destinati a migliorare strutture già presenti.
Il presidente Thabo Mbeki ripete ovunque di aver pieno controllo della situazione e garantisce che la Coppa del mondo del 2010 sarà un evento memorabile. Anche Joseph Blatter, presidente della Fifa, continua a viaggiare in Sudafrica e si dice ottimista, così come gli sponsor della Federcalcio sudafricana cioè Adidas, Coca cola e soprattutto Vodacom, del gruppo Vodafone, molto attivo anche in altri sport sudafricani. Anche perché il Sudafrica è da anni il teatro preferito per girare gli spot pubblicitari dell’azienda sempre più nota per le sue «esternalizzazioni».
Ma secondo quanto riferito da alcune agenzie i prezzi per la costruzione di cinque impianti sportivi e per la messa a punto degli altri quattro sarebbero lievitati ben oltre il budget di circa 900 milioni di euro messo a disposizione dal Tesoro. Il record nel rialzo dei prezzi va al nuovo Green Point Stadium di Città del Capo, i cui costi sarebbero cresciuti del 54 percento rispetto ai preventivi iniziali. Seguono lo stadio Nelson Mandela di Port Elizabeth [più 19,5 percento] e il King Senzangakhona di Durban [18 per cento]. Sovrapprezzi che ammontano al momento a 214 milioni di euro, imputati principalmente alle imprese che si sono aggiudicate gli appalti, le quali si giustificano accusando una mancanza di manodopera qualificata, l’inflazione e l’aumento dei prezzi per i materiali. Intanto il tempo passa e i lavori non proseguono come stabilito.
Il paese sarebbe così a corto di fondi che avrebbe anche deciso di spostare le risorse inizialmente previste per due nuovi ospedali nel distretto di Northern Cape nei finanziamenti per il mondiale di calcio. Del resto, che i soldi siano pochi, lo sanno bene anche i dipendenti del settore pubblico, che tra maggio e giugno 2007 hanno promosso uno sciopero generale a oltranza durato quattro settimane, per chiedere un aumento del salario minimo e altre rivendicazioni contrattuali.
Ma più dei malati e dei dipendenti pubblici, sono sicuramente i baraccati le principali vittime del mondiale, dal momento che numerose amministrazioni comunali del paese hanno deciso di sfruttare questo evento per compiere sfratti e per «ripulire» la città. Mlaba, il sindaco di Durban, in una recente intervista a un quotidiano locale, è stato piuttosto chiaro: «Abbiamo ripulito molte aree della città e delle townships. Il 2010 è una splendida occasione per ripulire aree che sono diventate insicure».
«Ci hanno detto che il campionato del mondo è per noi» dice Mdu del movimento Abahlali BaseMjondolo «ma in realtà noi non possiamo nemmeno permetterci i soldi per il biglietto. Il 2010 è una maledizione per tutti gli impoveriti del Sudafrica!».
Abahlali BaseMjondolo è il più grande movimento di impoveriti del paese con sedi in più di quaranta città, in particolare a Durban, Pinetown, Pietermaritzburg e Port Shepstone. Negli ultimi mesi Abahlali ha promosso molte manifestazioni e iniziative di protesta, che sempre più spesso sono state represse con la violenza dalla polizia.
Non c’è ombra di dubbio: Abahlali baseMjondolo fa paura. Il Sudafrica ha la più alta percentuale nel mondo di proteste, solo quest’anno più di cinquemila, per l’assenza totale delle risorse di prima necessità. Nelle terre occupate i baraccati vivono senza l’utilizzo dell’acqua e della luce, in condizioni disumane. Per questi motivi è nato il movimento e Philani Zungu, che ne è tra i promotori, così racconta la situazione: «La stampa e le istituzioni tentano di ridurre la nostra causa a una semplice richiesta di servizi. Noi stiamo lottando prima di tutto perché venga riconosciuta la nostra umanità. Io mi rifiuto di essere trattato come spazzatura. La polizia e i potenti credono di poterci trattare come topi solo perché non possiamo comprarci bei vestiti. La polizia ci picchia perché non ci tratta da essere umani. Vogliamo dimostrare prima di tutto la nostra dignità e insisteremo su questo. Loro dicono che questo è un comportamento pericoloso. Ma il problema è loro… noi non svenderemo la nostra umanità».
Il 28 settembre scorso Abahlali ha promosso una grande manifestazione nel centro di Durban, con migliaia di baraccati provenienti da tutta la provincia del Kwa Zulu Natal. «Quel giorno sono stato umiliato e offeso, come cittadino, come padre di famiglia e come presidente del movimento Abahlali», racconta S’bu Zikode che denuncia la violenza gratuita della polizia. «La repressione si è scatenata intorno alle 12,15, quando si era ancora in un momento di preghiera. Il sindaco di Durban Obed Mlaba aveva promesso di presentarsi per ricevere il memorandum di domande preparato dal movimento ma non ha avuto il coraggio e non si è fatto vedere». Quando è stata data la notizia, la folla ha deciso di rimanere e ha cominciato a pregare. La polizia non è stata a guardare, è partita la consueta macchina da guerra quando sono arrivati anche i rinforzi. A questo punto i religiosi delle differenti chiese presenti, tenendosi per mano, si sono posti tra la folla e la polizia. È stato un gesto di nonviolenza fortissimo e molto simbolico. «Non è nostra intenzione difendere Abahlali», spiega il Reverendo Thulani Ndlazi, «il movimento è già forte da solo e non ha bisogno della nostra protezione. Con il nostro gesto abbiamo voluto dire che se la polizia decide di picchiare e colpire i baraccati allora deve avere chiaro in testa che picchia e colpisce anche le chiese e quindi anche Dio». I religiosi sono stati i primi a essere inondati dagli idranti e a ricevere le manganellate della polizia: a fine giornata quindici gli arresti, più di venti i feriti colpiti da proiettili di gomma.
La grande sfida che il movimento dei baraccati lancia in queste settimane alle istituzioni e all’African national congress [Anc, il partito di Nelson Mandela e Thabo Mbeki] è il suo rifiuto per la politica dei potenti per promuovere quella che viene chiamata «ipolitiki ephilayo», la politica della vita. Abahlali rifiuta categoricamente di partecipare alla politica dei partiti, o forse sarebbe meglio dire «del partito», e di delegare la propria lotta a qualche Ong. Al contrario, il movimento cerca di costruire un potere popolare, il più democratico possibile.
Mnikelo, uno dei promotori storici del movimento racconta: «Noi, quelli che qualcuno chiama i leaders, siamo gli stupidi. È per questo che abbiamo bisogno di ascoltare e consultare le nostre comunità: ogni donna, ogni mamma, ogni padre sanno che cosa vuol dire vivere in una baracca. La comunità è esperta e maestra della sua stessa sofferenza e si autogoverna».
La partecipazione democratica è allo stesso tempo l’obiettivo e il metodo di questo grande movimento sociale. La sua prima grande lotta è avviare un processo di democratizzazione delle varie terre occupate, troppo spesso gestite da mafiosi locali arroganti e violenti, con il pugno di ferro. Nella «ipolitiki ephilayo» l’esperienza di partecipazione concreta delle persone è la cosa più importante. Non ci sono avanguardie pseudo illuminate o intellettualoidi a guidare la lotta. MakaSiwé spiega questo concetto con poche parole: «La cosa più importante è l’assemblea che abbiamo ogni settimana. È li che si decide e si discute. L’assemblea è l’assemblea, non importa quanto ricco sei».
Quella del movimento Abahlali è anche la politica dei poveri. Tutto il movimento è gestito da poveri e per i poveri. Questa scelta di non delegare a nessuno la lotta ha fatto andare su tutte le furie gli amministratori locali, ma anche molte Ong e persino qualche istituzione ecumenica. Mnikelo dice che «la lotta deve essere pensata e trasportata nei luoghi della nostra vera sofferenza. Ecco perché, in contrapposizione con l’’università degli intellettuali’, che poi sono quelli che organizzano grandi conferenze per parlare dei poveri, noi abbiamo fondato l’università di Abahlai baseMjondolo. Ai ricchi e a tutti quelli che parlano dei poveri, noi diciamo semplicemente che devono parlare con noi invece che per noi».
* missionario comboniano a Pietermaritzburg [Sudafrica]