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29 December 2009

La politica dei baraccati contro l’apartheid che segrega i poveri

La politica dei baraccati contro l’apartheid che segrega i poveri

IL SUDAFRICA DEL DOPO APARTHEID È DIVISO IN DUE. DA UNA PARTE C’È LA VERITÀ UFFICIALE DELL’ANC, IL PARTITO-STATO, AUTORITARIO E NEOLIBERISTA. DALL’ALTRA, IL NUOVO MOVIMENTO DELLE TOWNSHIP, ABAHLALI, CHE ORGANIZZA LA POLITICA DAL BASSO.

DI FILIPPO MONDINI E FRANCESCO GASTALDON

KLIPTOWN, NELLA ZONA DI SOWETO, è ora una grande estensione di baracche fatte di lamiera e cartone, fogne a cielo aperto e un livello di disoccupazione che sfiora il 72 per cento. Ma questa ex township ha rappresentato in passato il simbolo della volontà rivoluzionaria di milioni di sudafricani. Nel 1955, il sobborgo ha ospitato i delegati del popolo chiamati a elaborare la Freedom Charter, che ha ispirato per decenni la lotta anti-apartheid. Fu un processo democratico che coinvolse i sudafricani oppressi dal regime, dalle campagne alle città. Cinquantamila volontari percorsero il paese in lungo e in largo, chiedendo alla popolazione segregata quale fosse la sua visione per il Sudafrica del futuroe ottenendo come risposte che «la terra deve essere ridistribuita», che «l’istruzione deve essere gratuita e obbligatoria», «libertà di movimento e diritto di residenza» e «l’eliminazione di tutti i ghetti».

Negli anni ottanta il manifesto fu ripreso in modo radicale da una nuova generazione di militanti che si riunirono sotto lo United democratic front. Il movimento vedeva nella democrazia non solo l’obiettivo per il Sudafrica postapartheid ma anche la propria modalità di lotta, e questo ebbe una portata rivoluzionaria incredibile. La gente organizzò comitati di strada e di quartiere, fino a rendere ingovernabili le township e minacciando seriamente la sopravvivenza del regime della minoranza bianca. Durante l’apartheid i bianchi avevano standard di vita paragonabili alla California, i neri a quelli del Congo. Dopo quindici anni di democrazia, le contraddizioni non si sono attenuate. Secondo i dati economici più recenti, il Sudafrica è il paese più ineguale al mondo. Nonostante le speranze che la transizione aveva portato con sé, per la maggioranza della popolazione le condizioni di vita sono peggiorate, dal 1994 a oggi.

All’interno del Sudafrica esistono ancora due mondi distinti, e questa contraddizione rende la giovane democrazia di questo paese un gigante dai piedi d’argilla. L’African national congress [Anc, il partito-Stato al governo dal ’94] è di fatto responsabile di tutto questo, con le sue promesse non mantenute e con i suoi tradimenti degli ideali della lotta. Ma la storia del Sudafrica post-apartheid parte da lontano, dall’epoca dei negoziati che segnarono la fine del regime razzista. I negoziati si svilupparono lungo due binari, uno politico e uno economico. Mentre l’opinione pubblica si concentrava sui colloqui politici, sugli incontri tra l’Anc di Nelson Mandela e il National Party di De Klerk, gli altri negoziati venivano definiti «tecnici» e «amministrativi ». Il delegato principale per l’Anc era Thabo Mbeki, che aveva trascorso parte dell’esilio a Londra imparando lezioni di liberismo dal governo Thatcher. Il risultato fu che l’Anc conquistò il potere politico, abbandonando però i principi della Freedom Charter e sposando il credo delle politiche economiche neoliberiste.

La Banca centrale, indipendente dal governo, fu affidata a Chris Stals, lo stesso uomo che l’aveva guidata sotto l’apartheid. Invece di nazionalizzare le miniere, come era stato promesso durante la lotta, Mandela e Mbeki iniziarono a incontrarsi regolarmente con Harry Oppenheimer, ex presidente di Anglo-American e De Beers. Soprattutto, l’Anc accettò di pagare il debito internazionale contratto dal governo precedente, assicurando stabilità finanziaria ai grandi investitori e causando l’impoverimento di grandi parti della popolazione. Così, invece di compensare le vittime del la repressione – come chiese la Commissione di Verità e Riconciliazione presieduta da Desmond Tutu – la nuova democrazia ha ceduto alle richieste del Fondo monetario e della Banca mondiale. Con l’avvento di Mbeki alla presidenza [nel 1999] la svolta liberista diventa aperta e radicale: le nuove politiche economiche del Gear [Growth employment and redistribution programme] hanno portato a privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, flessibilità nel mercato lavoro, più libertà di scambio e meno controlli sui flussi di denaro. Le conseguenze sono state devastanti: per citare solo alcuni esempi, dalla fine dell’apartheid sono stati collegati alla rete idrica nove milioni di persone, mentre i tagli ne hanno colpite dieci milioni; il tasso di disoccupazione a novembre 2009 è al 31 per cento; la povertà è più profonda e istituzionalizzata che durante il regime segregazionista e la ricchezza sempre più polarizzata, con un gruppo ristrettissimo di persone che detiene la maggior parte del reddito nazionale; quasi un milione di persone sono state sfrattate dalle zone rurali e il numero degli

abitanti delle baraccopoli è aumentato vertiginosamente, e secondo alcune stime recenti circa un sudafricano su sei vive in un insediamento informale. Il movimento degli «shack dwellers» Abahlali baseMjondolo nasce alla fine del 2005, in questo contesto di rabbia e senso di tradimento delle promesse dell’Anc, inspirandosi agli ideali della lotta anti-apartheid dell’United democratic front [Udf]. L’ideale centrale della lotta dell’Udf era che il Sudafrica doveva appartenere a tutti quelli che ci vivevano, a tutti quelli che lottavano contro il regime. La lotta per una società non-razziale non poteva essere concessa dall’alto, ma andava costruita giorno per giorno attraverso l’azione politica popolare. Una questione cruciale, per il Sudafrica post-apartheid, è il passaggio dall’idea di nazione costruita su basi non razziali a quella della «rainbow nation»: l’idea astratta della «nazione arcobaleno» è stata costruita dalle narrative dello Stato, calata dall’alto da tecnocrati ed «esperti». Come sostengono diversi studiosi, ad esempio Richard Pithouse e Franco Barchiesi, a quindici anni dalle prime elezioni del ’94 appare evidente che per l’Anc il post-apartheid è un’epoca «postpolitica», in cui la solidarietà nazionale della «rainbow nation» deve prevalere sulle rivendicazioni sociali e politiche. L’unica «vera lotta», quella contro l’apartheid, è stata già vinta e la narrazione ufficiale tenta di riscrivere la storia della resistenza come una lotta condotta solo dall’Anc. Secondo l’ideologia ufficiale, ogni critica al governo e all’Anc equivale a un tradimento dei propri liberatori. E proprio i «liberatori» dell’Anc cercano di sfruttare il mito della Nazione e della lotta all’apartheid per nascondere la crescente povertà, la gestione verticistica e tecnocratica del potere e i tradimenti rispetto alle promesse fatte all’indomani della presa del potere. In quest’ottica, il cosiddetto «service delivery», la fornitura di servizi di base alle baraccopoli e ai cittadini più poveri, è una sorta di dono erogato dal- l’alto, in modo paternalistico e autoritario. Abahlali ha ben chiaro il problema di questa gestione del potere, e ne discute ampiamente nelle assemblee del movimento. Secondo Zodwa Nsibande, attivista di Abahali, «le comunità degli insediamenti devono essere consultate dalle autorità per quel che riguarda i piani di fornitura di servizi o costruzione di case popolari. Ma i politici non hanno rispetto per l’intelligenza dei poveri, credono che non siamo in grado di pensare autonomamente». Il presidente eletto del movimento, S’bu Zikode, dice che «il pensiero tecno- cratico esclude la maggioranza delle persone e viene supportato dalla violenza quando i poveri insistono sul loro diritto di parlare e di essere ascoltati. Da una parte c’è un consulente con il suo computer portatile e dall’altra un giovane ubriaco con una pistola in mano. Possono sembrare a prima vista diversi, ma entrambi servono lo stesso sistema, un sistema dove i poveri devono essere buoni e starsene al loro posto senza pensare o parlare». Nel post-apartheid si è passati dai comitati popolari di quartiere alla «società civile», formata da organizzazioni che servono a creare consenso intorno a interessi specifici. La lotta di Abahlali è radicalmente diversa da quella dei tecnocrati delle Ong. Alla «politica dei partiti» Abahlali contrappone una politica popolare, che i membri del movimento descrivono come una «politica vivente»: l’idea di un modo di fare politica che tutti possono capire e alla cui definizione tutti possono partecipare, opposto in modo radicale al linguaggio burocratico e tecnico che viene usato dalle autorità municipali, dai partiti politici e dalle Ong. La politica di Abahlali, spiegano gli attivisti, abbraccia l’universale. Al centro non ci sono interessi particolari ma i poveri, le persone. Le verità forgiate dalla lotta, elaborate e pensate democraticamente nelle assemblee, sono universali. Dopo le recenti violenze contro il movimento [che Carta ha raccontato: www.carta.org] S’bu Zikode ha detto che «questa democrazia non si cura dei poveri, perciò è nostra responsabilità farla funzionare per tutti i poveri, costruire la forza dei poveri e ridurre quella dei ricchi. Dobbiamo lottare per democratizzare tutti i posti nei quali viviamo, lavoriamo, studiamo e preghiamo». Un’altra caratteristica fondamentale della lotta del movimento è la sua fedeltà. Nella teorizzazione del filosofo politico Alain Badiou, la fedeltà è il «tentativo di sostenere nel pensiero le conseguenze dell’evento». È il rifiuto di tornare allo «status quo ante». La «fedeltà all’evento» non è scontata: richiede un «interesse-disinteressato» da parte dei partecipanti. Non c’è certezza, in questo processo. Se le «avanguardie» politiche conoscono la strada da percorrere, il movimento non la conosce a priori. I membri di Abahlali affermano che «l’alternativa, la direzione della nostra lotta, uscirà dal nostro pensiero, dalle riflessioni che facciamo insieme nelle nostre comunità, in cui ci educhiamo a vicenda e pensiamo la nostra lotta». Abahlali baseMjondolo, quindi, non chiede allo Stato l’elemosina di servizi pubblici e abitazioni popolari. Le richieste pratiche del movimento puntano a vedere realizzati i diritti sociali fondamentali promessi nella Costituzione sudafricana. Le rivendicazioni del movimento sono più pro fonde, e puntano a cambiare i termini stessi dell’inclusione dei poveri della società sudafricana, per trasformare il regime tecnocratico del post-apartheid in una democrazia realmente partecipata da tutti i cittadini. La lotta è per affermare la dignità dei poveri in senso più ampio, sostenendo con forza la loro capacità di esprimersi sulle politiche e sulle scelte che riguardano le loro vite.