il manifesto: Societa’ Marchiate a vita

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SOCIETÀ MARCHIATE a vita

Un mondo colonizzato dal libero mercato, le merci esercitano il dominio sulla società attraverso i segni irresistibili del loro logo. Un’intervista con lo studioso Raj Patel, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro «Il valore delle cose»

Nella aspra contesa tra valore d’uso e valore di scambio è quest’ultimo ad avere avuto la meglio. La società di mercato non riesce tuttavia ad avere la meglio su principii antichi tanto quanto è antica la presenza degli umani nel nostro pianeta: la reciprocità, la condivisione, la gratuità nelle relazioni interpersonali, la tendenza a cooperare per raggiungere un obiettivo. È attorno a questa antropologia ottimista della natura umana che sono cresciuti movimenti sociali segnati da una «politica vivente» che entra in rotta di collisione con l’ideologia del libero mercato, mentre cerca di sviluppare esperienze sociali e produttive senza attendere nessun sole dell’avvenire.

Raj Patel è uno studioso figlio del nostro tempo. Nato in Inghilterra da madre keniota e padre delle isole Fiji si è trasferito negli Stati Uniti per terminare gli studi universitari per poi insegnare nello Zimbawe, Sudafrica e Stati Uniti. Il filo rosso con cui ha tessuto la sua biografia intellettuale è rappresentato dalla partecipazione ai movimenti sociali attraverso cui legge il conflitto tra valore d’uso e valore di scambio. Ha infatti seguito con interesse l’esperienza di Via Campesina, le lotte per l’abitare nelle township sudafricane, la costituzione dei sindacati autonomi da quelli ufficiali in Cina, il conflitto dei raccoglitori di frutta nella Sun Belt degli Stati Uniti per ottenere condizioni di vita e di lavoro «dignitosi».

La lettura che dà della globalizzazione, contenuta nel suo ultimo libro Il valore delle cose (Feltrinelli, pp. 236, euro 16,50), ha un andamento epico che lo porta a non cogliere alcune contraddizioni, aporie, limiti che contraddistinguono i movimenti sociali, ma è comunque un saggio che illustra la loro capacità di sviluppare una autonomia dal potere costituito e, al contempo, la loro diffusione, come un virus, nelle società del mercato, creando così i presupposti di una più radicale trasformazione. Come questa possa accadere, cioè quali forme politiche, organizzative, quali proposte di organizzazione sociale e dell’economia mettere in campo per una fuoriuscita dalla società di mercato, sono quesiti a cui Patel non vuol rispondere, perché tocca ai protagonisti di quella «politica vivente» a cui il saggio è dedicato.

Nel suo libro, lei parla della sindrome di Anton che porta a una rappresentazione errata della realtà come una possibile cornice per contestualizzare le politiche economiche neoliberiste….

Parlo della sindrome di Anton come una metafora dello strano legame di dipendenza che tutti noi abbiamo con il capitalismo. Il nome viene da un medico, Anton Babinski, che la usò per indicare un disordine neurologico che può colpire un essere umano dopo un forte trauma al cervello. Si manifesta attraverso allucinazioni; oppure il «malato» si convince così intensamente di una cosa anche se quella non esiste. Ci sono cartelle cliniche che raccontano come uomini o donne descrivono minuziosamente un villaggio fuori dalla finestra delle loro case che non esiste; oppure lo considerano nuovo anche se è lì da decenni. Le persone che hanno questo disturbo neurologico conducono una vita di sofferenza: dimenticano il trauma che ha scatenato l’insorgere della sindrome e devono continuamente fare i conti con la distanza che intercorre tra la realtà e la rappresentazione. Uso questa metafora per ricostruire la storia dell’adesione ai sistemi di valori del capitalismo. Milioni di donne e uomini vivono in una realtà distante dalla rappresentazione distorta che ne hanno.

Prendiamo, ad esempio, il fatto che nel capitalismo la centralità del valore di scambio ha cancellato il valore d’uso di un bene o di una merce. La sindrome di Anton ha una mirabile capacità di spiegare perché una economia di mercato, orientata al profitto, continui a incontrare il consenso nonostante alcune innegabili irrazionalità e ingiustizie che la contraddistinguono. Potremmo dire che gran parte dell’umanità soffre di questa sindrome, laddove scambia l’economia di mercato come il migliore dei mondi possibili. È, appunto, come quel paziente che descriveva minuziosamente e con animo partecipe del ridente e ameno villaggio costruito fuori dalla sua finestra: peccato che quel villaggio non esisteva.

Per il pensiero neoliberale, l’homo oeconomicus è l’astrazione che indica come le radici della società stiano nell’individuo inteso come un essere razionale che cerca di massimizzare i suoi interessi. Nel suo libro, invece, lei oppone la riflessione di Karl Polany attorno alla centralità della reciprocità, dello stare insieme e della cooperazione per garantire la stabilità del legame sociale. Ma come possono le relazioni sociali funzionare da limite all’ideologia neoliberale incentrata sulla figura dell’homo oeconomicus?

L’homo oeconomicus è una creatura del diciannovesimo secolo, uno strumento inventato da John Stuart Mill per, parole sue, «dare una veste scientifica alle scienze sociali». Gli economisti di quel secolo erano eccitati dalle scoperte della fisica, in particolar modo dall’idea che gli atomi interagivano tra di loro perché governati da alcune leggi fisiche. Ma la cosa più importante è che vollero applicare le leggi della fisica alla realtà sociale per così spiegare i comportamenti dei singoli. Erano cioè convinti che esisteva una analogia tra come un atomo interagiva con altri atomi e come interagivano gli esseri umani tra di loro. Sebbene Stuart Mill alla fine della sua vita proponesse una visione più egualitaria nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze e proponesse eguali chances di partenza per tutti, la concezione dominante dell’homo oeconomicus ha ormai rotto ogni steccato in cui, nel passato, era stato rinchiuso dagli stessi teorici liberali. Più che uno strumento da usare per spiegare il mondo, è diventato un deus ex machina che deve modellare i nostri comportamenti in esso.

Il Nobel per l’economia Gary Becker, ad esempio, sostiene che il mondo funziona come un immenso mercato dove gli uomini e le donne mettono in campo strategie tese a massimizzare i loro interessi. Le conclusioni politiche a cui potremmo giungere in base a questo modello potrebbero essere molto bizzarre. Becker e altri economisti e filosofi neoliberali hanno teorizzato aste per mettere in vendita i diritti di cittadinanza o una specie di tombola dove vengono estratti a sorte i diritti individuali. Sono posizioni sconclusionate, ma è in base a queste bizzarrie che il neoliberismo ha costruito la sua egemonia, riuscendo a cancellare e relegare sullo sfondo della memoria collettiva la centralità delle relazioni sociali basate sul dono, la reciprocità, la condivisione nel nostro vivere in società.

Lei scrive che ogni uomo o donna ha il «diritto ad avere diritti». Può spiegare questo concetto?

Viviamo in un mondo dove il libero mercato è sinonimo di libertà. Il filosofo canadese Jerry Cohen ha proposto un piccolo esperimento mentale per farci comprendere in che rapporto è il lavoro salariato con l’idea di libertà insita nel concetto di libero mercato. Cohen ha proposto di immaginare di vivere in un mondo dove un uomo o una donna ricevano piccoli tagliandi al momento della loro nascita. Ogni tagliando corrisponde a un diritto: diritto a visitare la mamma ammalata, a passare per una strada, a vivere in un determinato luogo o città, a mangiare una bistecca, a un’assistenza medica in caso di malattia o incidente. Non sei però obbligato a fare ciò che è scritto sui tagliandi, che stabiliscono i limiti della tua libertà. Ma se tu cerchi di fare qualcosa che non è contemplato tra i diritti possibili, interviene la legge per impedirtelo. I tagliandi stabiliscono cioè la mappa delle tue libertà. Più tagliandi hai, maggiore è la tua libertà. Il denaro ha la stessa funzione dei tagliandi: ti consente cioè di acquistare la tua libertà. Ma che società è quella che ti costringe ad acquistare una assicurazione sanitaria, pasti e una casa decenti, la sicurezza a essere curato in caso di un incidente sul lavoro, o a comprare una protezione nel caso di un licenziamento? Una società dove, se non hai denaro, non sei un uomo, o una donna, libera. In sintesi, nel capitalismo il denaro è il diritto ad avere diritti. Nel libro, quando scrivo di avere il «diritto ad avere diritti» mi riferisco invece a quei movimenti sociali che lottano affinché il denaro non sia più l’unità di misura della libertà.

Lei cita Via Campesina, i movimenti urbani per il diritto alla casa o quello sindacale autonomo in Cina per introdurre il tema della «politica vivente», argomento molto dibattuto in Europa. Mi sembra, però, che la sua interpretazione differisca da quella che molti teorici neoliberali danno. Può spiegare cosa intende per «politica vivente»?

Sebbene il libro sia stato scritto ben prima della crisi economica, sono sempre stato interessato alle soluzioni proposte e sperimentate dai movimenti da lei citati. Uno degli elementi che ho ritrovato in tutte le esperienze che ho seguito è che sono movimenti interessati non solo a coinvolgere la popolazione, ma ad apprendere conoscenza dai processi sociali in cui hanno preso forma e si sono sviluppati. Dalle università popolari nate negli slum del Sudafrica all’Università dei poveri negli Stati Uniti alla parola d’ordine zapatista «imparare camminando», la politica che queste realtà perseguono è sempre una politica che apprende dalla realtà in cui si sviluppano conflitti e lotte sociali. Non è cioè una politica «preformattata», bensì «vivente».

La concezione di «politica vivente» a cui mi riferisco è quella che ho appreso da un uomo sudafricano, S’Bu Zikode, che lavora nell’industria petrolifera. Le sue parole la riassumono meglio di quanto riuscirei a fare io: «La politica vivente non richiede una formale educazione scolastica; è una politica che nasce nella vita di ogni giorno e in ciò che quotidianamente facciamo per cambiarla. È una politica che ognuno di noi comprende. È una politica che chiede di avere l’acqua quando non l’abbiamo, che chiede di avere energia elettrica per illuminare le nostre case e le strade dove viviamo, che chiede di non morire di fame. Non ha bisogno di grande teorie per essere spiegata, perché è comprensibile a tutti. Non è complicato capirlo per chi ha gli stessi problemi».