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27 September 2010

Facevo il professore a Milano. Adesso insegno Matematica in Messico, nella scuola zapatista

http://rlangone4.blogspot.com/2010/09/facevo-il-professore-milano-adesso.html

Facevo il professore a Milano. Adesso insegno Matematica in Messico, nella scuola zapatista

Raffaele Langone

Ho lasciato la scuola italiana (dove con grande piacere insegnavo Matematica) per continuare a farlo, anziché nel privilegiato mondo occidentale, in luoghi dove lo sfruttamento, l’esclusione, il disprezzo, l’ingiustizia, la persecuzione e la conseguente miseria sono più forti. Ho scelto il Chiapas, uno stato del sud-est messicano perché lì è nato un movimento indigeno che si oppone e resiste alle logiche della globalizzazione neoliberale. Mi sembrava che la sua conoscenza potesse insegnarmi molto.

Così, conclusi gli ultimi impegni di lavoro nella scuola superiore di Milano, sono arrivato nell’ottobre 2009 a San Cristobal de Las Casas. Il percorso di avvicinamento alla realtà indigena è stato lungo, costellato di molti momenti di frustrazione e timore di aver sbagliato strada o approccio. Alla fine, nei primi giorni di questo mese di luglio (2010) è iniziata la mia prima esperienza di insegnamento (taller) nel caracól di Morelia a circa 20 Km dalla città di Altamirano. Ciò che segue è il tentativo di raccontarlo.

La marcia di avvicinamento

Per arrivare ad appoggiare il sistema educativo zapatista ho aspettato nove mesi. Nove mesi passati a fare le cose più diverse: lavorare come falegname nella Università della Terra, andare nelle comunità indigene come osservatore dei diritti umani per documentare e denunciare attraverso murales, interviste e conferenze stampa i frequenti assedi dei paramilitari, visitare alcune scuole statali in zona indigena, studiare l’antica Matematica e Astronomia maya.

A San Cristobal c’è una Università molto atipica; il Cideci (Centro Indigena de Capacitaciòn Integral) o Università della Terra. Non riceve alcun aiuto dallo Stato ed è un vero e proprio ponte con il mondo indigeno, in particolare quello che si ispira allo zapatismo, per la formazione professionale. E’ una scuola informale che assomiglia più alle università medioevali quando queste erano un vero centro di cultura e ricerca piuttosto che, come oggi, un luogo per produrre laureati.

Nei primi giorni dell’ottobre 2009 mi sono presentato al direttore del Cideci, il dr. Raymundo, un intellettuale coltissimo, amico del subcomandante Marcos e di tutta la comandancia dell’EZLN. Gli ho chiesto se potevo insegnare nel suo centro ma mi ha risposto descrivendomi piuttosto il suo funzionamento: cosa e come si insegna. Ho capito così che, per insegnare agli indigeni, la mia lunga esperienza di insegnante rischiava di essere più un ostacolo che un aiuto. In questa scuola non si certifica nulla perché il sapere non è certificabile, non si insegnano materie specifiche perché il sapere non è a compartimenti stagni, non ci sono registri perché non esistono prove di verifica né obblighi di presenza, non ci sono aule divise per età o grado di avanzamento perché ognuno apprende secondo i suoi ritmi e secondo la propria maturità. Il direttore mi ha consigliato di rivolgermi ai caracoles dove già da anni esisteva una scuola primaria (elementare) e una scuola secondaria (media) autonoma. Soprattutto mi ha consigliato di non avere fretta nel realizzare il mio progetto, di frequentare l’Università della Terra come e quando volevo, di visitare i caracoles e le comunità.

Così, per più di un mese, ho fatto l’apprendista nella falegnameria dell’Università della Terra sperimentando un insegnamento dove docente e alunno sono due persone che fanno insieme lo stesso lavoro e dove i ruoli della scuola tradizionale sono messi in discussione. In questi mesi ho partecipato, all’Università della Terra, agli incontri settimanali di discussione chiamati “seminari” che sono una vera e propria scuola di formazione per capire cosa avviene in Chiapas, in America Latina e soprattutto nel mondo. Un spazio frequentato da messicani, internazionali e indigeni e dove le esposizioni iniziali sono fatte in lingua spagnola ma anche in tzeltal e tzotzil, due delle lingue indigene più parlate in Chiapas.Ho fatto la spola diverse volte in tre caracoles Oventic, Morelia e Roberto Barrios per offrire la mia disponibilità e farmi conoscere dalle commissioni educazione e dalle Giunte del Buon Governo.
Il primo incontro concreto l’ho avuto a marzo dove, con la commissione educazione del caracol di Morelia, si è pianificato un piano di lavoro che prevedeva il mio trasferimento da una scuola all’altra ogni due settimane. Ho passato tre mesi a preparare il materiale didattico che sarebbe servito per insegnare nel sistema educativo zapatista.

In tutti questi mesi, ho provato forti sentimenti di entusiasmo ma anche di sconforto. Molte volte ho avuto l’impressione che il mio progetto, di lasciare il mio lavoro di insegnante di Matematica in Italia, di lasciare la mia casa e i miei affetti, fosse stata una follia.

I Caracoles e la costruzione dell’autonomia

La lunga attesa aveva una ragione. La maggior parte di coloro che appoggiano il sistema educativo zapatista sono messicani. Tutti quelli che ho conosciuto hanno cominciato a lavorare con gli zapatisti dal momento della costruzione delle prime Aguascalientes ovvero dai primi tentativi di darsi una organizzazione autonoma.

La scelta dell’autonomia consisteva nell’attuare per proprio conto ciò che l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale aveva chiesto fin dall’inizio e cioè il diritto di tutti gli indigeni del Messico a una casa dove vivere con la propria famiglia, una terra e un lavoro per avere cibo, il diritto alla salute per non morire di malattie che per noi occidentali sono un semplice fastidio come la diarrea, il rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni e il diritto all’educazione. Con la firma degli accordi di san Andrés, nel 1996, il governo riconosceva tali diritti ma poi fece marcia indietro. Di fronte a questo tradimento l’EZLN ha risposto avviando un processo di costruzione di una autonomia in tutti i campi. Si trattava di costruire una società nuova partendo dal basso, senza utilizzare le risorse tipiche di uno stato, ma soprattutto, di dare il potere al popolo senza prendere il potere, in una situazione di grande incertezza, sottoposti di continuo a ostilità sia di carattere militare che paramilitare, per cacciarli dalle terre che lavoravano e per impedire loro l’accesso a risorse naturali primarie come l’acqua.

Naturalmente, per costruire questa autonomia il movimento indigeno aveva bisogno dell’appoggio della società civile e questo aiuto arrivò con grande generosità ma anche con la tipica autoreferenzialità e supponenza di chi, pur essendo di sinistra, è cresciuto nel mondo capitalista. Se ne videro di tutti i colori. Professori universitari che volevano rafforzare la loro immagine di sinistra (in molte università messicane e in molti circoli intellettuali essere di sinistra è ancora di moda), insegnanti con una visione molto cittadina che cercavano di trasferire la loro visione di una istruzione universale valida in tutti i luoghi del mondo tra persone che rifiutavano la globalizzazione e l’omogeneizzazione, gruppi di studenti che dopo un primo appoggio sparivano e costringevano gli operatori della scuola autonoma a ricominciare daccapo.

Risulta quindi naturale una certa diffidenza nei confronti di tutti coloro che si presentano nelle comunità per offrire gli appoggi più disparati. Gli zapatisti, prima di accettare l’appoggio di qualcuno, innanzi tutto lo vogliono conoscere, vogliono capire le sue vere intenzioni, la sua tenacia e determinazione, la sua convinzione a lavorare in condizioni non facili. Tutto ciò indipendentemente dalla sua competenza professionale, dalla sua capacità di svolgere bene il suo lavoro nella città. La sua capacità di insegnare sarà verificata dopo, osservandolo in azione.

I volontari sono ben accetti ma solo nel ruolo di servire e obbedire a coloro che vogliono aiutare Nella scuola autonoma indigena coloro che insegnano sono gli stessi indigeni. Non ci sono insegnanti che vengono da fuori delle comunità. Nelle scuole zapatiste non insegnano né insegnanti volontari venuti da altre regioni, né tanto meno volontari stranieri o, peggio, insegnanti inviati dal governo. Nelle scuole zapatiste si insegna tutto quello che potrà servire nella vita della comunità. Esistono le materie tradizionali ma i loro contenuti sono orientati ad attendere alla loro cultura quotidiana. Esiste la materia “lingua spagnola” (quella ufficialmente parlata in Messico) ma correntemente si parla e si insegna nella lingua maya locale.

Nelle scuole zapatiste coloro che insegnano non sono insegnanti professionali. Sono ragazzi e ragazze usciti dalla scuola secondaria che tornano sui banchi a insegnare ciò che avevano imparato. Una delle principali ragioni di questa apparente rigidità è la lingua: la maggioranza degli indigeni non domina lo spagnolo. Sarebbe come insegnare Geografia in lingua inglese nelle scuole italiane. La maggioranza uscirebbe ignorante in Geografia. Una delle sfide della scuola zapatista è garantire a tutti, veramente tutti, l’insegnamento di base. Un po’ sullo stile di una battuta del Che Guevara “Se non c’è caffè per tutti non ci sarà caffè per nessuno”. Cinquecento secoli di esclusione sono troppi per sopportare che sia proprio la loro scuola quella che esclude i propri figli.
Trovare però insegnanti che vengono dalle città o peggio dall’estero e che parlino tzeltal risulta impossibile. Ecco la scelta di affidare l’insegnamento, in tutte le discipline, ai giovani indigeni appena usciti dalla scuola. La loro preparazione deve però essere sostenuta di continuo e così si accetta l’aiuto di insegnanti e studenti volontari disposti a rinforzare le conoscenze dei promotori. E’ la stessa comunità indigena, attraverso i promotori, che fa educazione e formazione. I promotori decidono cosa e come insegnare, scegliendo tra ciò che hanno imparato anche da coloro che vengono da fuori. In questo modo si accetta un aiuto che viene dall’esterno senza però cadere in una subalternità culturale di nuovo tipo. Chi viene dall’esterno dovrà anche dimostrare di capire e adeguarsi alla loro cultura e alle loro abitudini.

Qui in Chiapas è facile conoscere persone che lavorano, in tutto il mondo, nel volontariato internazionale. Il volontario che lavora in un qualsiasi settore in Paesi come il Sudan, l’Etiopia, la Colombia, il Brasile, l’India, spesso ha ai suoi ordini un certo numero di lavoratori locali. E’ difficile, in queste condizioni, rompere con la cultura neocoloniale della subalternità. Qui, fortunatamente, direi che avviene proprio il contrario. Una esperienza simile a quella zapatista si trova nel movimento Abahlali dei poveri delle baraccopoli di Città del Capo in Sudafrica. Un gruppo di loro, durante i recenti mondiali di calcio, ha girato anche l’Italia per far conoscere la situazione di migliaia di poveri che hanno visto la loro casa distrutta per far posto agli stadi e a tutte le opere costruite per celebrare i riti della kermesse affaristico -sportiva.
Il Movimento Abahlali baseMjondolo è gestito dai poveri e per i poveri senza concedere deleghe. Rifiuta i partiti politici e non partecipa alle elezioni, gestisce la vita nelle immense baraccopoli in modo assolutamente autonomo per difendersi dalla criminalità organizzata e dalle prepotenze dello stato. Nelle baraccopoli i volontari sono ben accetti ma solo nel ruolo di servire e obbedire a coloro che vogliono aiutare … se vogliono aiutarli veramente.
Gli studenti decidono tutto

Il primo giorno ci si trova, a mattinata inoltrata, alle 11, al caracol di Morelia.

I promotori che insegnano nelle undici scuole autonome gestite dalla Giunta del Buon Governo di Morelia, chiamato poeticamente “Cuore dell’arcobaleno della speranza”, arrivano da municipi autonomi anche molto lontani. Qualcuno per arrivare ha dovuto alzarsi alle 4 del mattino e fare un viaggio di 6 ore.
Io arrivo da San Cristobal con il materiale didattico da me preparato: due manuali, uno sulle frazioni e un altro sui criteri di congruenza dei triangoli e una gran quantità di materiale come cerchi, triangoli, poligoni, listelli di cartoncino colorato, strumenti per misurare e disegnare, ecc.

Mi aspettano tre giorni di lavoro. Il mio compito è contribuire a migliorare la preparazione in Matematica dei promotori in modo che possano meglio insegnare nelle loro scuole disperse nel territorio. Alle lezioni erano presenti 20 promotori. L’aula è un grande capannone del caracol di Morelia, generalmente destinato ai grandi eventi.

Diverse volte chiedo a uno dei coordinatori della commissione quale argomento dovrò trattare nei tre giorni, ma mi risponde sempre con calma: “Vediamo cosa dicono i promotori”.

Alla fine della discussione le preferenze dei promotori cadono sulle frazioni forse più per la curiosità che muove il titolo “Manuale di Aritmetica”.

Una volta scelto l’argomento, mentre il coordinatore si offre per andare a fare le fotocopie, gli studenti discutono sull’orario delle lezioni: quando iniziare, quando sospendere per bere il pozòl (bevanda di acqua e massa di mais fermentato), quando sospendere per il pranzo e la doccia e quando concludere la giornata di lavoro. L’orario scelto verrà sempre discusso ma in buona parte confermato nei giorni successivi.

Ho l’impressione che dalla scelta dell’orario potrò capire se sono o no gradito.
La vicenda della discussione per scegliere argomenti e orari mi vede ai margini. Nessuno chiede il mio parere. D’altra parte sono io che appoggio loro, non loro cha appoggiano me. Da vecchio sessantottino mi viene in mente lo slogan gridato nei cortei a Milano: “La classe operaia deve decidere tutto” e le richieste degli studenti nelle Università per scegliere stile e contenuti dell’apprendimento (il piano di studio). In realtà, allora, gli studenti avanzavano richieste che avrebbero soddisfatto esigenze personali, individuali. Qui le scelte sono collettive: insieme si discute e poi si decide. Mi sembra un salto in avanti da giganti.

Insegnanti contadini

Sono stati tre giorni intensissimi. Inizio alle 6,30 della mattina e avanti fino alle 19 della sera.
La loro età va dai 20 ai 30 anni. Essere promotori di educazione vuol dire aver concluso la scuola secondaria (corrispondente alla nostra terza media più un anno di nostra scuola superiore) ed essere subito mandati a insegnare quello che si è appreso ai loro compagni più piccoli.

Un promotore di educazione non lavora solo nella scuola.

E’ un campesino come tutti gli altri che vive del lavoro del suo terreno o quello che la comunità gli affida. Quando insegna, il lavoro sul suo terreno viene affidato al lavoro comunitario che tutti, a turno, hanno il dovere di offrire alla comunità. Tutto avviene all’insegna dello scambio e della solidarietà. “Se tu ci fai il favore di occuparti dell’istruzione dei nostri figli, noi lavoriamo per te, il tuo terreno”. Il promotore non riceve un salario, viene ricompensato con il lavoro comunitario che la comunità organizza per lui.

Durante le lezioni l’attenzione e l’interesse sono straordinari. Chissà! Forse anche loro paragonano il loro duro lavoro quotidiano nei campi con quello più leggero, inusuale e affascinante di apprendere. Mi viene alla mente una frase dei ragazzi di don Milani a Barbiana in “Lettera a una professoressa”: In polemica con la svogliatezza dei ragazzi di città sottolineavano che per loro l’alternativa alla scuola sarebbe stato il lavoro nella stalla e dicevano: “La scuola è sempre meglio della merda”.

Fare Matematica, in “castilla” o in tzeltal?

La difficoltà più grande che ho incontrato nei tre giorni è stata quella di spiegare Matematica a promotori che conoscevano poco lo spagnolo. Fortunatamente erano pochi.

Le lingue parlate dai 20 presenti al taller erano tzeltal, tzotzil e tojolabal, tutte lingue di origine maya ma (soprattutto l’ultima) molto diverse tra loro. Nei primi due giorni cercavo di coinvolgerli chiedendo loro di uscire e affidare a loro la spiegazione ma era una fatica improba. Il problema era forse il mio “castilla”, come qui viene chiamata la lingua dei dominatori, probabilmente poco chiapaneca, ma soprattutto il problema era l’uso dello stesso castilla. L’ultimo giorno ho capito che l’unico modo per contenere le difficoltà di comprensione era quello di chiedere a qualcuno di loro di ripetere quello che avevano capito nella loro lingua. Naturalmente io non capivo un accidenti di quanto spiegavano in lingua maya, non potevo capire se la spiegazione era corretta ma intuivo alcune cose da quello che scrivevano alla lavagna e, soprattutto, dalla passione che ci mettevano nella loro riesposizione. Uno di loro mi sembrava possedere straordinarie doti di insegnante.

Promotori e Promotrici

La presenza femminile tra i promotori di educazione era abbastanza modesta: 5 ragazze contro 15 maschi. Una era particolarmente in difficoltà soprattutto perché si esprimeva molto di più in tzeltal che in castilla. Era intimorita anche dalla mia offerta di aiuto. Solo quando un’altra ragazza si offriva di aiutarla si rianimava.

L’insegnante non valuta, viene valutato

Una delle prime cose che i coordinatori della commissione educazione mi hanno detto già nel primo incontro di marzo era che, dopo i primi incontri, sarebbero stati i promotori a dare una valutazione del mio operato. Avrebbero valutato se potevano accettare ancora il mio appoggio, sulla base di quanto avessero capito e di come avvertissero che la loro preparazione fosse in quei giorni effettivamente migliorata e soprattutto se avessi dato gli stimoli giusti per migliorare il loro insegnamento quotidiano nelle scuola secondaria autonoma.
Alla fine dei tre giorni è stata fatta l’analisi dell’esperienza. Avevo una paura del diavolo. Mi sentivo sotto esame e mi rendevo conto che non tutti avevano capito tutto. D’altra parte, per trovare il massimo comun divisore di due numeri senza padroneggiare la divisione per 2 non è facile arrivare al risultato corretto. Avevano tutti in odio la calcolatrice. Io di fronte a certe difficoltà la proponevo ma da tutti veniva un rifiuto sdegnoso. Il calcolo mentale, per quanto difficoltoso, dava loro una certa soddisfazione.
Nel corso dell’analisi tutti hanno parlato. Alcuni di loro, nei giorni precedenti, non rispondevano mai alle mie domande di Matematica e credevo che non sarebbero intervenuti. Invece hanno parlato in modo semplice ma deciso, tutti.

Alla fine tutti mi hanno rinnovato la fiducia chiedendo che si facesse Matematica tutti i mesi. Il prossimo appuntamento è stato fissato per il 2 settembre.

In occasioni di alcuni intervalli, prima di iniziare, mi hanno anche chiesto di raccontare loro delle storie ma non ero preparato. Hanno organizzato dei brevi giochi dove chi perdeva raccontava una storia. Ho capito che il racconto è una arte molto radicata nella loro cultura e nella comunicazione. La prossima volta mi preparo meglio anche su questo fronte.

La scuola costa

Un altro problema importante è quello delle spese della scuola sia secondaria che primaria.

Il bilancio di un caracol è ridotto all’osso. Sia coloro che si avvicendano nelle massime cariche della Giunta del Buon Governo, sia i membri delle varie commissioni non ricevono stipendi. I costi di una scuola autonoma riguardano soprattutto il pranzo degli alunni e dei promotori e il poco materiale didattico.
Il caracol di Oventic per pagare queste spese ha escogitato un sistema intelligente: ha messo in piedi una scuola di spagnolo e tzotzil per stranieri. Lo straniero che vuole apprendere lo spagnolo o la lingua indigena nel caracol paga in proporzione al salario minimo in vigore nel proprio Paese di origine. Una misura perfettamente in linea con la visione della scuola del nostro don Milani: “E’ una insopportabile ingiustizia pretendere di dividere in parti uguali tra disuguali”.

Cultura maya: lo sforzo di farla rivivere o di riconoscere la sua esistenza
Tra gli obiettivi della scuola zapatista c’è quello di dare valore alla propria cultura e ciò ovviamente deve passare per il riconoscimento della cultura originaria. Ad esempio, giustamente, gli zapatisti si rifiutano di chiamare rovine i templi maya di Palenque, Chichen Itzà e altri. Questi sono delle meraviglie di arte e funzionalità. Alcuni di questi erano degli osservatori astronomici che permisero agli antichi sacerdoti maya di effettuare osservazioni di una precisione superiore a quella raggiunta nel mondo occidentale.
Nei murales dei caracoles questa coscienza di appartenere a quella grande antica cultura è evidente. Spesso ripetono che se gli indigeni del Messico hanno mantenuto le loro organizzazioni sociali, la loro cultura e la loro lingua anche dopo i 500 anni di colonizzazione vuol dire che questa aveva forti radici e un grande valore per poter resistere ai “valori” capitalistici del mondo occidentale imposti con la violenza e il denaro.

Ho però constatato che in Chiapas ci sono concezioni differenti per valorizzare questa antica cultura.

Ho frequentato un corso di due giorni sulla Matematica maya impartito da una coppia di ricercatori guatemaltechi di cultura indigena maya. La loro tesi era che l’antica cultura maya, pur dividendosi in molti rami: tzotzil, tzeltal, chol, tojolabal, huasteca, lacandona (tutte in Messico) e tanti altri rami come il kaqchikel in Guatemala, doveva essere coltivata insegnando le radici comuni di questa cultura modificando i contenuti delle materie scolastiche anche in quelle ritenute importanti dalla cultura moderna come la Matematica.

Il ricercatore guatemalteco riteneva che nelle scuole elementari si dovesse insegnare sia la Matematica tradizionale, occidentale (che serve per la vita e per il lavoro) sia la quella maya allo scopo di conoscere la propria cultura originaria, per rinforzare la coscienza identitaria ma anche leggere, pensare e operare con i numeri in base 20 (come gli antichi maya) e di scriverli con gli antichi glifi, di sviluppare le capacità logiche dei bambini.
Non solo. Le sue lezioni iniziavano e terminavano dando grande spazio a riti caratterizzati da un grande sincretismo religioso con una forte mescolanza di religione cattolica e credenze indigene di chiara origine maya. Prima di cominciare abbiamo costruito un classico altare maya fatto di foglie di abete, candele e fiori di vario colore; ci sono state lunghissime preghiere in ginocchio; si è data una grande attenzione a segni anche insignificanti come un peluzzo nella candela, la cera che si scioglie più a nord che a sud. Tutti segnali che potevano comunicarci qualcosa su quanto sarebbe successo, di bene o di male, nel corso della giornata. Riti che esprimono certamente un grande considerazione della spiritualità e che aiutano a dare valore e importanza a ciò che si fa. Nel mondo occidentale l’importanza di un lavoro o di una qualsiasi cosa non viene dal nostro o da quello dello “spirito” delle cose che ci stanno intorno ma dal guadagno che quel lavoro o quella cosa può produrre. Anche noi abbiamo i nostri riti: la spesa, il consumo, l’esibizione, la velocità, la collezione di oggetti inutili.

Ma tutta quella insistenza sui riti e la spiritualità e lo sforzo di far rivivere gesti e segni ormai scomparsi mi sono sembrati una forzatura. Far rivivere una cultura che non esiste più, attingendo agli antichi testi maya che attualmente neppure si trovano in territorio messicano per la furia predatoria del Vaticano e di Stati europei come Germania, Spagna e Inghilterra, mi sembra una forzatura, una violenza ma anche una operazione inutile.

L’importanza della Matematica tra gli zapatisti

In territorio zapatista non si pretende di far rivivere la cultura maya. Lo sforzo è piuttosto quello di conservare l’attuale cultura indigena che certamente ha origine dall’antica cultura maya ma, nel corso di questi 500 anni di colonizzazione, si è profondamente trasformata. I riferimenti che facevo alle conoscenze matematiche maya erano ascoltate con attenzione ma senza una evidente entusiasmo.

Nel corso dei tre giorni, sia da parte dei promotori che da parte dei coordinatori ho avvertito che il loro interesse per la Matematica veniva dalla convinzione che noi chiameremmo galileiana che tutto è Matematica, che la natura stessa si regge su leggi Matematiche e che la sua conoscenza permette di conoscere meglio e perciò rispettare meglio ciò che ci circonda. E’ bene apprendere la matematica perché serve.

Cosa significa per loro questo “serve” non mi è ancora chiaro. Da noi quel serve significa, per una buona maggioranza, … far soldi. Ma qui non credo proprio.