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Ipolitiki ePhilayo

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Filippo Mondini

La chiamano «politica della vita»: è la democrazia del più grande movimento sociale del Sudafrica, quello dei baraccati. Che lotta contro le spese per i mondiali [Carta 39/06]

Il Comito organizzatore assicura che rispetterà le richieste della Fifa, la Federazione internazionale di calcio, che vorrebbe la conclusione dei lavori entro un anno e mezzo. Due stadi, costi quel che costi, saranno già pronti per la Confederation Cup del 2008. Secondo gli organizzatori del campionato del mondo di calcio in Sudafrica nel 2010, non ci sono problemi grazie ai quasi mille milioni di euro stanziati per la costruzione di nuovi stadi e la ristrutturazione di quelli esistenti. Il presidente Thabo Mbeki ripete ovunque di avere il pieno controllo della situazione e garantisce che la Coppa del mondo sarà memorabile. Anche Joseph Blatter, presidente della Fifa, continua a viaggiare in Sudafrica e si dice ottimista, così come gli sponsor della Federcalcio sudafricana cioè Adidas, Coca cola e soprattutto Vodacom, del gruppo Vodafone, molto attivo anche in altri sport sudafricani. Anche perchè il Sudafrica è da anni il teatro preferito per girare gli spot pubblicitari dell’azienda sempre più ota per le sue «esternalizzazioni».

Ma secondo quanto riferiscono alcune agenzie, nelle ultime settimane i prezzi per la costruzione di cinque impianti sportivi e per la messa a punto degli altri quattro sarebbero lievitati ben oltre il budget di più di 900 milioni di euro messo a disposizione dal Tesoro. Il record, nel rialzo dei prezzi, va al nuovo Green Point Stadium di Città del Capo, i cui costi sarebbero cresciuti del 54 per cento rispetto ai preventivi iniziali. Seguono lo stadio Nelson Mandela di Port Elizabeth [più 19,5 percento] e il King Senzangakhona di Durban [18 per cento]. Sovrapprezzi che ammontano al momento a 214 milioni di euro, imputati principalmente alle imprese che si sono aggiudicate gli appalti, le quali si giustificano con la mancanza di manodopera qualificata, l’inflazione e l’aumento dei prezzi per i materiali. Intanto il tempo passa, i lavori non proseguono come stabilito, e aumentano le proteste.

Il paese sarebbe così a corto di fondi che avrebbe anche deciso di spostare le risorse inizialmente previste per due nuovi ospedali nel distretto di Northern Cape ai finanziamenti per il mondiale di calcio. Del resto, che i soldi siano pochi lo sanno bene anche i dipendenti del settore pubblico, che tra maggio e giugno 2007 hanno promosso uno sciopero generale a oltranza, durato quattro settimane, per chiedere un aumento del salario minimo e per altre rivendicazioni contrattuali.

Ma più dei malati e dei dipendenti pubblici, sono sicuramente i baraccati le principali vittime del mondiale, dal momento che numerose amministrazioni comunali del paese hanno deciso di sfruttare questo evento per organizzare sfratti e «ripulire» le città. Obed Mlaba, il sindaco di Durban in una recente intervista a un quotidiano locale è stato chiaro: «Abbiamo ripulito molte aree della città e delle townships. Il 2010 è una splendida occasione per ripulire aree che sono diventate insicure».

«Ci hanno detto che il campionato del mondo è per noi – dice Mdu, del movimento dei baraccati Abahlali BaseMjondolo – ma in realtà noi non possiamo nemmeno permetterci i soldi per acquistare un solo biglietto. Il 2010 è una maledizione per tutti gli impoveriti del Sudafrica!».

Abahlali BaseMjondolo è il più grande movimento di impoveriti del paese con sedi in più di quaranta città, in particolare a Durban, Pinetown, Pietermaritzburg e Port Shepstone. Negli ultimi mesi Abahlali ha promosso molte manifestazioni e iniziative di protesta che sempre più spesso sono state represse con la violenza dalla polizia.

Non c’è dubbio: Abahlali BaseMjondolo fa paura. Il Sudafrica ha la più alta percentuale nel mondo di manifestazioni di protesta, solo quest’anno più di cinquemila, per l’assenza totale delle risorse di prima necessità. Nelle terre occupate i baraccati vivono senza acqua e senza elettricità, in condizioni disumane. Per questi motivi è nato il movimento e Philani Zungu, che ne è tra i promotori, così racconta la situazione: «La stampa e le istituzioni tentano di ridurre la nostra causa a una semplice richiesta di servizi. Noi stiamo lottando prima di tutto perché venga riconosciuta la nostra umanità. Io mi rifiuto di essere trattato come spazzatura.

La polizia e i potenti credono di poterci trattare come topi solo perché non possiamo comprarci bei vestiti. La polizia ci picchia perché non ci tratta da esseri umani. Vogliamo dimostrare prima di tutto la nostra dignità e insisteremo su questo.

Loro dicono che questo è un comportamento pericoloso. Ma il problema è loro… noi non svenderemo la nostra umanità».

Il 28 settembre scorso Abahlali ha promosso una grande manifestazione nel centro di Durban, con migliaia di baraccati provenienti da tutta la provincia del Kwa Zulu Natal. «Quel giorno sono stato umiliato e offeso, come cittadino, come padre di famiglia e come presidente del movimento Abahlali», racconta S’bu Zikode, denunciando la violenza gratuita della polizia. «La repressione si è scatenata intorno alle 12,15, quando si era ancora in un momento di preghiera. Il sindaco di Durban, Obed Mlaba, aveva promesso di presentarsi per ricevere il memorandum di domande preparato dal movimento, ma non ha avuto il coraggio e non si è fatto vedere». Quando lo si è saputo, la folla ha deciso di rimanere e ha cominciato a pregare. La polizia è partita con la consueta macchina da guerra quando sono arrivati anche i rinforzi. A questo punto i religiosi delle differenti chiese, tenendosi per mano, si sono interposti tra la folla e la polizia. E’ stato un gesto di nonviolenza fortissimo e molto simbolico.
«Non è nostra intenzione difendere Abahlali – spiega il reverendo Thulani Ndlazi – il movimento è già forte da solo e non ha bisogno della nostra protezione. Con il nostro gesto abbiamo voluto dire che se la polizia decide di picchiare e colpire i baraccati allora deve avere chiaro in testa che colpisce anche le chiese, quindi anche Dio». I religiosi sono stati i primi a essere inondati dagli idranti e a subire le manganellate della polizia: a fine giornata, quindici gli arresti, più di venti i feriti, colpiti da proietti li di gomma.

La grande sfida che il movimento dei baraccati lancia in queste settimane alle istituzioni e all’African national congress [Anc, il partito di Nelson Mandela e Thabo Mbeki] è il suo rifiuto della politica dei potenti, per promuovere quella che viene chiamata «ipolitiki ephilayo», la politica della vita. Abahlali rifiuta categoricamente di partecipare alla politica dei partiti, o forse sarebbe meglio dire «del partito», e di delegare la propria lotta a qualche Ong. Al contrario, il movimento cerca di costruire un potere popolare, il più democratico e partecipato possibile. Mnikelo, uno dei promotori storici del movimento racconta: «Noi, quelli che qualcuno chiama i leaders, siamo gli stupidi. E’ per questo che abbiamo bisogno

di ascoltare e consultare le nostre comunità: ogni donna, ogni mamma, ogni padre sanno che cosa vuol dire vivere ogni giorno in una baracca. La comunità è esperta e maestra della sua stessa sofferenza e si autogoverna».

La partecipazione democratica è allo stesso tempo l’obiettivo e il metodo di questo grande movimento sociale. La sua prima grande lotta è avviare un processo di vera democratizzazione delle molte terre occupate, troppo spesso gestite da mafiosi locali arroganti e violenti, con il pugno di ferro. Nella «ipolitiki ephilayo» l’esperienza di partecipazione concreta delle persone è la cosa più importante. Non ci sono avanguardie pseudo illuminate a guidare la lotta. Maka Siwe spiega questo concetto con poche parole: «La cosa più importante è l’assemblea che abbia mo ogni settimana. E’ li che si discute e si decide. L’assemblea è l’assemblea, non importa quanto ricco sei».

Quella del movimento Abahlali è anche la politica dei poveri. Tutto il movimento è gestito da poveri e per i poveri. Questa scelta di non delegare a nessuno la lotta ha fatto andare su tutte le furie gli amministratori locali, ma anche molte Ong e persino qualche istituzione ecumenica. Mnikelo dice che «la lotta deve essere pensata e trasportata nei luoghi della nostra vera sofferenza. Ecco perchè, in contrapposizione con l’’università degli intellettuali’, che poi sono quelli che organizzano grandi conferenze per parlare dei poveri, noi abbiamo fondato l’università di Abahlali. Ai ricchi e a tutti quelli che parlano dei poveri, noi diciamo semplicemente che devono parlare con noi invece che per noi».

Slum Africa

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Slum Africa

Intervista di Francesco Gastaldon a S’bu Zikode, tra i promotori di Abahlali [Carta 40/09].

Abahlali baseMjondolo [«quelli che vivono nelle baracche» in Zulu], come raccontato su Carta 35/09, è un grande movimento sociale sudafricano nato alla fine del 2005, per protesta contro la mancata erogazione di servizi di base alle baraccopoli e la mancata distribuzione di case in città. Il movimento ha fin da subito denunciato l’atteggiamento delle autorità locali, incapaci di ascoltare le esigenze reali dei poveri urbani. Abahlali si è diffuso prima nel Kennedy Road di Durban, poi in molti altri insediamenti informali nella regione del KwaZulu-Natal e in quella di Città del Capo. Le battaglie principali di Abahlali si sono concentrate sull’evitare gli sgomberi indiscriminati delle baraccopoli. Uno dei punti centrali della lotta del movimento è la volontà di essere considerati come cittadini a pieno titolo e di essere consultati nelle decisioni che riguardano le proprie vite. Purtroppo, nella sua breve vita il movimento è stato vittima di molti episodi di repressioni e di tentativi di legittimazione da parte delle autorità pubbliche. La notte del 26 settembre una folla di quaranta uomini armati ha attaccato l’insediamento di Kennedy Road, dove sorgeva l’ufficio centrale di Abahlali, uccidendo tre persone, distruggendo molte abitazioni e facendo fuggire centinaia di persone. Secondo varie ricostruzioni, sembra che alcuni responsabili locali dell’African national congress [Anc] siano coinvolti nella pianificazione degli attacchi. S’bu Zikode, uno dei promotori e presidente di Abahlali, è rimasto senza casa e vive clandestino da quella notte, insieme alla sua famiglia, dopo essere stato ripetutamente minacciato di morte. Carta è riuscito a incontrarlo in una casa nei dintorni di Durban, dove è ospitato insieme a un’altra famiglia da alcuni amici.

Cosa sta succedendo nel movimento dopo gli attacchi?

Tutto è diventato più difficile. Nonostante non abbiamo più una sede centrale, continuiamo a incontrarci, ci sono assemblee e riunioni in vari insediamenti. Non possiamo soltanto nasconderci. Dobbiamo reagire e partecipare fisicamente alle assemblee e alle riunioni, nonostante noi promotori del movimento continuiamo a ricevere minacce di morte da parte di persone associate con l’Anc. Per noi è anche molto importante sapere chi è fuggito da Kennedy Road, chi si sta nascondendo, chi ha bisogno di cibo o di vestiti. Purtroppo le autorità non stanno facendo nulla per gli sfollati. Le chiese stanno dando del supporto molto apprezzato. Noi invece abbiamo delle richieste precise per le autorità. Abbiamo perso le nostre case e siamo rifugiati nella nostra città. Vogliamo che ci sia assegnata una casa, ne abbiamo il diritto. Vogliamo che ci siano restituito ciò che ci è stato sottratto. Chiediamo che i nostri figli siano accompagnati a scuola in modo sicuro, perché ora vivono lontano dalle loro scuole e non ci sono trasporti efficienti. Chiediamo che sia garantita la sicurezza di chi aderisce al Kennedy Road Development Committee e ad Abahlali. Vogliamo indietro la nostra dignità.

Cosa state discutendo in questo momento nelle assemblee del movimento?

Si discute degli attacchi e dell’attuale crisi, cosa significa per noi, come interpretiamo quello che è accaduto, come reagire. Ma discutiamo anche il modo in cui continuare a concentrarci sulla nostra lotta. Non vogliamo che questa crisi ci distolga dalle nostre battaglie. Non dobbiamo dimenticare che il nostro programma è di esercitare pressioni sulla municipalità perché ci vengano garantite abitazioni e servizi. Stiamo anche continuando a lottare a livello legale per i casi di sgombero e violazione della legge da parte delle autorità. Non ci sono purtroppo solo i problemi di Kennedy Road, ma anche quelli di tanti altri insediamenti. Continueremo ad affrontare i problemi delle comunità. Continueremo a chiedere terra e case in città per gli shack dwellers. Non ci arrenderemo e chiederemo ai residenti degli insediamenti di sostenerci.

Un paio di settimane dopo gli attacchi, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale lo Slums Act emanato dalla regione del KwaZulu-Natal nel 2007. Il caso era stato portato davanti alla Corte da Abahlali nel maggio 2009. Cosa prevedeva lo Slums Act?

La legge prevedeva che le persone fossero cacciate dai loro shack per essere ‘ricollocati’ nei cosiddetti ‘campi di transito’, in modo tale che gli insediamenti potessero essere rimossi. Inoltre, obbligava i proprietari privati a sgomberare chi occupava illegalmente i loro terreni, pena la condanna a cinque anni di carcere e a una multa di 20.000 rand, circa 2.000 euro. Le stesse pene erano previste per gli shack dwellers che tentavano di resistere agli sgomberi. Seguendo lo Slums Act, la municipalità aveva cominciato a censire gli shack negli insediamenti informali. Non contavano le persone, per garantire loro una casa alternativa, ma contavano gli shack per programmarne la demolizione!

Puoi spiegarci quindi che cosa significa questo giudizio della Corte costituzionale?

La sentenza della Corte definisce la sezione 16 dello Slums Act in contrasto con la Costituzione che garantisce il diritto alla casa. Questo significa, in breve, che la municipalità non può demolire gli shack senza un ordine del tribunale, sia in città che nelle zone rurali. Significa che la municipalità e chi possiede la terra non hanno più diritto di sgomberare le persone dalle loro abitazioni senza un ordine del tribunale.

Per quale ragione, secondo voi, il governo della regione del KwaZulu-Natal aveva emanato quella legge?

Ci sono varie ragioni. La prima è l’errata interpretazione degli obiettivi fissati dalle Nazioni unite nei Millenium Development Goals. Uno degli obiettivi chiede che si migliorino le vite di almeno 100 milioni di shack dwellers entro il 2020. Il KwaZulu-Natal l’ha interpretato come ‘eliminare tutti gli insediamenti informali’ entro il termine del 2014, senza occuparsi della vita delle persone. Allo stesso tempo, le autorità vogliono costruire una ‘world class city’, una città senza slum. Questa idea si sta rafforzando con i preparativi dei mondiali di calcio 2010: il governo vuole che nelle principali città non ci siano baraccopoli, così i turisti internazionali non le vedranno quando saranno in Sudafrica nel 2010. Stanno creando delle città nelle quali essere poveri è un crimine. Non capiscono che non ci possiamo permettere delle case ‘normali’, e quindi costruire shack è l’unica alternativa. Come pensano di eliminare le baraccopoli senza garantire un lavoro e una casa alternativa agli shack dwellers?

Cosa significa questa vittoria per voi, come movimento?

Non è solo una vittoria per il movimento! Lo è per tutti i cittadini del Sudafrica e per le generazioni future. La Corte costituzionale ha stabilito un precedente fondamentale per quanto riguarda il diritto a non essere sgomberati. Abahlali ha dimostrato che la sua campagna a difesa dei diritti umani era giusta ed era coerente con la Costituzione: questo significa che la nostra voce deve essere rispettata. Senza Abahlali, il governo locale avrebbe potuto comportarsi in modo incostituzionale. Questo vuol dire che il nostro ruolo è fondamentale, perché difende i diritti dei più poveri fra i sudafricani.

Oltre al caso dello Slums Act, altre volte siete ricorsi a vie legali per contrastare gli sgomberi o altre azioni delle autorità, con il supporto di alcuni centri legali progressisti. Come si inscrivono le battaglie legali nella strategia complessiva del movimento?

Noi non siamo avvocati, il movimento non è uno studio legale. La nostra lotta continua indipendentemente dai giudizi dei tribunali. I problemi che stiamo affrontando non sono di natura tecnica, sono politici. Di conseguenza, dobbiamo affrontarli con strumenti politici. Non si deve cedere alla tentazione di incrociare le braccia e dire ai nostri amici avvocati ‘andate avanti voi’. Noi siamo un movimento sociale. L’utilizzo degli avvocati e dei tribunali è l’ultima risorsa. Prima si deve tentare di lottare con strumenti politici, e solo in ultima istanza utilizzare le vie legali, dando istruzioni agli avvocati basandosi sulle nostre richieste politiche. E anche una sconfitta in tribunale non farà venire meno le ragioni della nostra lotta.

Cosa intendi quindi per ‘lotta con strumenti politici’?

Dobbiamo avere strategie politiche per affrontare il potere: le assemblee di Abahlali, le proteste, i «camps» [grandi assemblee con discussioni che durano tutta la notte], i raduni di massa…sono tutte strategie politiche all’interno della nostra lotta. La nostra battaglia è giocata anche sul piano dell’immaginario. È importante mobilitare il maggior numero di persone dalla nostra parte, per vincere la lotta politica. La mobilitazione e l’organizzazione delle persone sono fondamentali per la nostra strategia di lotta. Ciò che scuote lo Stato, ciò che lo minaccia, è il numero di cittadini che lo contesta. In questo modo il potere di chi governa è messo in discussione.

Qualche giorno fa, in alcuni insediamenti della città sono stati arrestati dei residenti perché avevano attivato connessioni illegali all’elettricità. Cosa pensi di questo comportamento della polizia e delle autorità?

Questi problemi sono affrontati solo da un punto di vista tecnico-legale. Abahlali chiede da tempo l’elettricità per tutti gli insediamenti, anche per evitare la piaga degli incendi. La regione ha invece deciso nel 2001 la sospensione dell’elettrificazione delle baraccopoli perché gli insediamenti sono considerati ‘provvisori’. Le autorità non cercano di comprendere la ragione per cui le persone si connettono illegalmente all’elettricità, le necessità degli shack dwellers, ma tentano solamente di reprimere e di arrestare. Se la connessione illegale è un crimine perché ‘ruba’ l’elettricità, allora è un crimine allo stesso modo quello delle autorità che non garantiscono i servizi agli insediamenti.

Puoi dirci qualcosa sulle relazioni di Abahlali con altri movimenti, sia in Sudafrica che a livello internazionale?

In Sudafrica abbiamo fondato la Poor People’s Alliance insieme al Rural Network, al Landless People’s Movement della zona di Johannesburg e all’Anti Eviction Campaign di Città del Capo. Lavoriamo insieme a loro perché la nostra lotta e i nostri obiettivi sono gli stessi, cambia solo il contesto. Abbiamo anche buoni rapporti con la Treatment Action Campaign e con l’Anti Privatization Forum. Fuori dal Sudafrica, abbiamo molti amici. Dei nostri delegati sono andati questa estate a New York e nel Regno unito, per incontrare gruppi e movimenti che lottano su questi temi. Gli anni scorsi siamo stati in Brasile e a Nairobi per il Forum sociale mondiale. Per noi è molto importante costruire alleanze a livello globale, per formare un fronte comune contro le politiche della globalizzazione neoliberista. Per questo, ci piacerebbe anche venire in Italia a incontrare i movimenti e le associazioni che lo vorranno. La proposta di Carta, organizzare un ‘mondiale al contrario’ ci piace molto: dobbiamo soltanto pensare bene al periodo, perché durante le partite del mondiale noi vogliamo essere in Sudafrica, per sfruttare quella straordinaria visibilità mediatica per portare all’attenzione del mondo le nostre rivendicazioni.