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il Manifesto: Un Centro Città Soltanto per Ricchi

Un Centro Città Soltanto per Ricchi

di Francesco Gastaldon

Lo stadio «Coca Cola Park» a Johannesburg è
uno dei più vecchi del Paese, nonché uno dei pochi
che sorge al centro di una comunità urbana
densamente abitata. A differenza delle zone
che circondano gli stadi in riva al mare di Cape Town e
Durban, o dello spazio aperto intorno all’altro stadio di
Johannesburg, Ellis Park è un quartiere al confine della
Inner City, abitato da residenti di varia estrazione sociale
e noto per essere una zona «degradata» e problematica.
Visto da lontano, lo stadio della finale mondiale
di rubgy 1995 si innalza sopra una distesa di edifici popolari,
molti dei quali abbandonati e occupati da persone
che non riescono a permettersi un affitto a prezzi
di mercato nella Johannesburg del 2010. Kate Tissington,
ricercatrice del Socio-Economic Rights Institute
of South Africa, lavorava fino all’anno scorso al Centro
di Studi Legali dell’Università del Witwatersrand
e ha seguito personalmente molti casi di sgombero di
occupanti abusivi. «Il nostro centro di supporto legale
ha assistito recentemente alcuni cittadini che vivevano
in un edificio abbandonato a Betrams, vicino allo stadio
di Ellis Park», spiega Kate. «Gli occupanti sono stati
cacciati dai proprietari con l’uso della forza e lasciati
senza nessuna sistemazione alternativa. L’obiettivo era
quello di abbattere i vecchi edifici per creare un Priority
Block commerciale e immobiliare vicino allo stadio
in vista del Mondiale, con un progetto portato avanti
da una partnership pubblico-privata». A febbraio, in
un altro caso che ha fatto molto discutere, un migliaio
di altri abitanti di Ellis Park ha ottenuto dal tribunale
il diritto a tornare temporaneamente nelle case da
cui erano stati allontanati senza preavviso, perché lo
sgombero era avvenuto in modo irregolare. «Episodi
di sgombero violento non avvengono solo nei pressi
del Coca Cola Park», prosegue Kate, «in tutta la città
ci sono proprietari che cacciano cittadini senza mezzi
economici dagli edifici in cui vivono, e la situazione sta
peggiorando con l’arrivo dei mondiali di calcio. Anche
se hanno formalmente il diritto di farlo, il risultato è
che inquilini indigenti e occupanti abusivi si ritrovano
in mezzo a una strada». Gli immobili e le aree intorno
agli stadi della Coppa del Mondo fanno davvero molta
gola ad investitori e speculatori. Anche se i visitatori
previsti sono inferiori alle speranze del governo sudafricano,
si tratterà comunque di centinaia di migliaia di
tifosi e turisti che si riverseranno nelle principali città
del paese. Ma le operazioni di «pulizia» della città dalla
presenza poco gradita di gruppi marginalizzati e di attività
economiche «informali» non sono certo una novità
degli ultimi mesi a Johannesburg.

Il Mondiale degli sgomberi

Se nei pressi dello stadio di Ellis Park i sogni di speculazione
dei proprietari immobiliari stanno diventando
più concreti con l’avvicinarsi del torneo, gli altri quartieri
centrali di Johannesburg sono da anni oggetto di una
serie di strategie di «riqualificazione». «Riqualificare»
significa rendere le aree centrali della città appetibili a
potenziali residenti benestanti, al mondo degli affari e
agli investitori, per riuscire a trasformare radicalmente
il volto di Johannesburg, farla divenire una vera «world
class city» e nascondere le enormi disuguaglianze e contraddizioni
della città. Questi piani coinvolgono primariamente
la Inner City, il centro storico della città. La zona
della Greater Johannesburg è cresciuta negli anni in
modo incontrollato, generando una megalopoli che va da
Jo’burg a Pretoria, circondata da un nugolo di autostrade
e tangenziali che collegano le varie parti della conurbazione.
La galassia di township e quartieri periferici,
da Soweto a Sandton, da Randburg ad Alexandra, ruota
però intorno alla Inner City, i quartieri centrali riservati
ai residenti e commercianti bianchi durante l’apartheid.
Con la fine del regime, tuttavia, la Inner City ha iniziato
a mutare il suo aspetto e nel 1991 era una delle aree
più miste del Paese (con il 54% di appartamenti abitati
da bianchi). Con il Business Act del 1991, che rimuove
le barriere ai venditori di strada nella zona, le attività
commerciali informali hanno iniziato a fluire nella Inner
City, permettendo ai sudafricani neri di avere un’attività
di sussistenza nel centro di Jo’burg. Forse spaventati dal
mutamento in atto nell’Inner City, i residenti bianchi più
benestanti sono fuggiti in massa (nel 1996 appena il 5%
dei residenti era bianco), molti edifici abbandonati sono
stati occupati da persone indigenti e nell’immaginario
della classe media i quartieri centrali sono diventati sinonimo
di degrado, povertà ed illegalità diffusa. Da qui,
il passo verso la retorica dell’emergenza per la Inner City
è stato breve. Perché Johannesburg potesse tornare ad
essere «il cuore dorato dell’Africa», il centro storico della
capitale economica sudafricana doveva cambiare radicalmente
aspetto. Nel 2002 il progetto «Jo’bur 2030»
si è posto come obiettivo quello di attrarre investimenti
e di stimolare la crescita economia, per trasformare il
centro di Johannesburg in una «città di livello mondiacittà
le» entro il 2030. Nel 2003 è stata elaborata la «Inner
City Regeneration Strategy», a cui è seguita la Inner City
Regeneration Charter del 2007, con l’esplicito scopo di
riportare attività economiche di alto livello, mondo degli
affari e residenti benestanti all’interno dell’area.

Una città privata

Queste dinamiche di gentrification e riqualificazione
comportano, nella pratica, un processo di progressiva
privatizzazione dello spazio pubblico. Nella Inner City,
ad esempio, sono stati creati recentemente cinque City
Improvement Districts (Cid), aree che ricevono servizi
aggiuntivi da parte della municipalità nei settori della
sicurezza, della pulizia e del commercio, per i quali i residenti
devono pagare una tassa extra all’amministrazione.
Se la maggior parte dei proprietari immobiliari si
dichiara favorevole, la tassa diviene obbligatoria e viene
eletto un consiglio dei proprietari che tratta con la municipalità
e con le partnership pubblico-private incaricate
di riqualificare la zona. Chi paga un affitto e non possiede
immobili, però, non ha alcun potere decisionale
per quanto riguarda l’istituzione o la gestione del Cid.
Le logiche economiche private non sono rappresentate
solo da questi «distretti prioritari». Non è segreto che le
politiche di «rigenerazione» in atto a Jo’burg strizzino
l’occhio agli investitori di capitali: dal 2004 al 2008 un
flusso di ben 750 milioni di dollari si è riversato nella Inner
City come investimento commerciale ed edilizio, e
per ridare lustro alle proprietà immobiliari e per progetti
pubblici di facciata. La ristrutturazione immobiliare è
direttamente collegata all’aumento dei prezzi degli appartamenti
e degli affitti, che a Johannesburg tanti non
riescono a pagare. La maggior parte degli abitanti della
Inner City, infatti, è ancora costituita da poveri, molti dei
quali vivono di attività economiche informali (primo fra
tutti il commercio di strada, un settore che in un Sudafrica
in cui un quarto della popolazione è disoccupata dà
lavoro a quasi un milione di persone) e occupano edifici
fatiscenti abbandonati da tempo dai proprietari. Sono
proprio questi residenti, insieme ai lavoratori irregolari,
che il processo di riqualificazione punta ad allontanare
dai quartieri centrali di Jo’burg, per rifare il look
alla città. Se si guarda alle statistiche, si capisce che il
problema abitativo non è marginale nel Paese. Secondo
i dati del governo, il bisogno di case di edilizia popolare
è di 2,1 milioni di unità in tutto il Sudafrica. Nel 2004,
il 23% delle famiglie sudafricane nelle aree urbane non
aveva accesso ad una abitazione «formale», e cioè viveva
in baraccopoli o occupando in modo precario degli
alloggi.

Nella Inner City di Johannesburg, uno degli strumenti
usati delle autorità per liberare gli edifici occupati è il
Better Building Programme (Bbp), con cui vengono identificati
e sgomberati edifici in cattivo stato che costituiscono
«un rischio per la salute degli occupanti», facendo
appello alle norme igieniche e di sicurezza contenute nel
National Building Regulation Act. L’appello alla salute,
alla sicurezza e all’igiene per attuare politiche di sgombero
e «rimozione» degli abitanti, ricorda tristemente la
retorica messa in campo dai governi segregazionisti per
liberare i quartieri cittadini dai neri durante l’apartheid.
Il fenomeno non è per nulla marginale: secondo l’urbanista
Tanja Winkler, che studia da anni le dinamiche di
gentrification a Johannesburg, dal 2002 al 2009 ci sono
stati ben 125 palazzi espropriati in base al Bbp, con l’effetto
collaterale di lasciare migliaia di persone senza tetto.
Secondo Winkler ben 25mila persone nella Inner City
potrebbero ritrovarsi in strada se il Bbp venisse applicato
fino in fondo. Al di là degli aspetti politici e della violazione
del diritto alla casa, tutelato dalla Costituzione
sudafricana, la strategia del governo cittadino è anche
piuttosto miope: nella maggior parte dei casi chi rimane
senza casa non può far altro che occupare altri edifici
della zona. Non si può negare che in molti casi questi
palazzi siano in condizioni veramente pessime, senza
servizi e con problemi strutturali, ma le politiche delle
autorità sono incapaci di fornire un’alternativa reale al
problema. «In città c’è una esigenza enorme di alloggi
a prezzi economici, che cresce costantemente», spiega
Kate Tissington, «e naturalmente l’avvicinarsi della
Coppa del Mondo sta peggiorando la situazione». L’altra
soluzione è spesso quella di «ricollocare» i residenti
sgomberati in unità abitative costruite dal governo o
dalla municipalità in aree periferiche, lontano dalla città.
Ma come ha documentato di recente l’organizzazione
Centre for Housing Rights and Evictions di Ginevra attraverso
interviste molto accurate, sono pochi quelli che
accettano questa alternativa. Vivere in una zona densamente
abitata e centrale come la Inner City, infatti, offre
possibilità che non si trovano nelle periferie sub-urbane,
come lavori occasionali, commercio di strada, vicinanza
a trasporti e servizi.

Una questione di democrazia

Appare evidente che lo sforzo della municipalità per
trovare strategie di «rigenerazione» per Johannesburg
non ha preso in considerazione le esigenze, i problemi e
le opinioni degli abitanti più in difficoltà della Inner City.
«In Sudafrica non si può pensare di trovare soluzioni
senza consultare i poveri», riflette Zodwa Nsibande del
movimento di abitanti delle baraccopoli Abahlali base-
Mjondolo («quelli che vivono nelle baracche» in lingua
Zulu). «La nostra Costituzione è fortemente a favore
dei poveri, e tutela il diritto alla casa come diritto fondamentale.
L’applicazione delle leggi da parte delle autorità,
però, è spesso contro gli interessi e i bisogni dei
più poveri». Abahlali baseMjondolo, movimento nato a
Durban nel 2005, lotta ormai in varie altre città del Paese
per cercare di ottenere il «diritto alla città» e alla casa
per shack dwellers e occupanti informali. Ma le organizzazioni
che protestano contro l’idea di una città chiusa
ai settori più marginalizzati della popolazione sono ormai
molteplici. In Sudafrica, il ricordo della segregazione,
del razzismo e dell’esclusione è ancora molto forte. Il
criterio di accesso ai centri cittadini non è più solo razziale,
come durante l’apartheid, ma è basato sulla classe
sociale a cui si appartiene e al proprio reddito. Nel 2007
l’associazione di venditori di strada StreetNet International
ha lanciato la campagna «World Class Cities for
All», con l’obiettivo di mettere in discussione l’idea per
cui una città di «classe mondiale» debba liberarsi delle
attività economiche informali e dei residenti più poveri.
Fra le altre organizzazioni che appoggiano la campagna
ci sono gruppi senza tetto, sex worker, ragazzi di strada,
inquilini indigenti e shack dweller. «Perché i poveri devono
essere ulteriormente marginalizzati e scomparire
con l’avvicinarsi dell’arrivo dei tifosi del Mondiale?» si
chiede Pat Horn, coordinatrice della campagna. In effetti,
il suo interrogativo sarà ancora valido dopo la fine
del torneo a luglio 2010. A Johannesburg, Durban, Cape
Town fino ad arrivare alle altre città del Sudafrica, sarà
possibile pensare ad uno sviluppo urbano in cui ci sia
spazio anche per i poveri?

il Manifesto: La Prossima Rivoluzione dei Dannati Della Terra

LA PROSSIMA RIVOLUZIONE DEI DANNATI DELLA TERRA

di Richard Pithouse

L’African National Congress (Anc) è salito al potere nel 1994 grazie ad una delle più significative mobilitazioni popolari della storia recente e con massiccio consenso elettorale. Il partito era dominato da un’élite nazionalista e stalinista che mirava alla totale egemonia sulle forze progressiste, e quasi tutte le organizzazioni di base hanno rinunciato volontariamente alla propria autonomia in suo favore.

Il nuovo stato non ha abbandonato i poveri. Al contrario, ha cercato di contenerli. Confluite sotto l’autorità dell’Anc, ben presto le organizzazioni politiche di base sono diventate per i singoli un mezzo per fare carriera
nel partito, e per il partito un mezzo per controllare le comunità locali. Alla classe lavoratrice sindacalizzata sono state offerte nuove tutele, attraverso accordi di tipo corporativo. Ai poveri sono stati offerti sussidi a carattere sociale immediati e universali, e inoltre è stata loro promessa la progressiva «erogazione» di case e di servizi essenziali quali l’acqua, l’energia elettrica, i servizi igienici, la rimozione dei rifiuti. Ma questa «erogazione», caratterizzata da una forte disuguaglianza, era accompagnata dal progetto di risegregare le città in base alla classe e di far transitare i poveri in un sistema in cui questi servizi dovevano essere trasformati in merci.E molti di loro, semplicemente, non potevano permetterseli. I poveri hanno così scoperto che spesso, per loro, «sviluppo» significava essere sfrattati dalle baracche e dalle case popolari in cui vivevano, o vedersi tagliare la fornitura di acqua o di energia elettrica.

Nel 1998, dopo la morte per Aids di Simon Nkoli – l’attivista anti-apartheid e per i diritti dei gay che non poteva permettersi la terapia antiretrovirale – è nata la Treatment Action Campaign (Tac). Trasformatasi in un movimento di massa organizzato attorno a un nucleo professionale di Ong, questa organizzazione ha proposto all’Anc una critica leale della posizione di quel partito sull’Aids. Con la sua capacità di utilizzare un mix tra mobilitazione di massa, mezzi di informazione ad alto livello e strategie legali, la Treatment Action Campaign è riuscita a contrastare sia il tentativo delle case farmaceutiche di ricavare profitti dalla pandemia di Aids, sia il negazionismo e la ciarlataneria del governo di Thabo Mbeki. La Tac ha avuto inoltre un ruolo cruciale nella legittimazione di alcuni tipi di dissenso nei confronti dell’Anc.

La campagna contro gli sfratti Anti-Eviction Campaign (Aec) è nata all’inizio di questo secolo dalle lotte popolari contro gli sfratti, i tagli alle forniture di acqua e di energia elettrica, e le violenze della polizia a Cape
Town. Sin dall’inizio, l’Anti-Eviction Campaign ha mes-so in chiaro che i suoi organizzatori e leader sarebbero stati espressione delle comunità povere. La sua tattica, molto più che in qualunque altro movimento post-apartheid, si è basata su azioni di militanza diretta, come ad esempio far rientrare le persone sfrattate nelle loro case. Essa ha incluso azioni innovative di ogni tipo, miranti a scompaginare il sistema legale. Il movimento ha preso una posizione chiara contro la politica su base elettorale e propone invece la costruzione di un potere popolare.

Nello stesso periodo è nato a Johannesburg il Forum Anti-Privatizzazione (Anti-Privatisation Forum). Sviluppatosi a partire dalle lotte sindacali e degli universitari, l’Apf è un fronte allargato che, pur comprendendo una varietà di prospettive ideologiche, ha espresso la posizione più nettamente socialista tra i movimenti sociali post-apartheid. Dispone di personale e collaboratori retribuiti provenienti dai sindacati, dalle organizzazioni sul territorio, da organizzazioni studentesche e da piccole organizzazioni politiche, e lavora a stretto contatto con una serie di Ong della sinistra. È intervenuto contro
gli sfratti, contro il taglio dei servizi essenziali e contro l’installazione di misuratori prepagati per l’acqua attraverso la mobilitazione di massa, l’azione diretta e l’azione legale.

il movimento dei senzaterra

Poco più tardi, da una iniziativa di alcune Ong di sinistra attive sulla questione della terra, è nato il Landless People’s Movement (Movimento dei senza terra), che però tre anni dopo ha rotto con le Ong e da allora opera
autonomamente come movimento controllato dalla base. Nel 2004 il Landless People’s Movement ha scandalizzato l’Anc lanciando un boicottaggio elettorale con lo slogan No Land! No Vote! ed è stato oggetto di una forte repressione, ivi compresa la tortura di alcuni suoi militanti. Non è più in grado di operare a livello nazionale ma continua ad avere una presenza attiva in alcune baraccopoli attorno a Johannesburg.

Come l’Anti-Eviction Campaign di Cape Town, il Concerned Citizens Forum (Ccf) di Durban è nato anch’esso in risposta al taglio dei servizi essenziali e agli sfratti. A differenza dell’Anti-Eviction Campaign, il Concerned Citizens Forum è stato sostenuto e guidato da personalità di alto profilo, capaci di esercitare una influenza considerevole sulla sfera pubblica, e ha largamente mobilitato gli abitanti di due comunità nere povere di Durban che in precedenza avevano sostenuto i partiti pro-apartheid. Questo ha consentito al Concerned Citizens Forum di articolare un discorso militante di dissenso verso l’Anc. Il Ccf ha anche cercato di competere nelle elezioni amministrative, ma senza successo. I suoi leader della classe media, innovativi e carismatici, erano disposti a uno sconto frontale con lo stato ma si opponevano alla creazione di strutture democratiche che permettessero al movimento di svilupparsi, e di conseguenza il movimento ha avuto vita breve.

Nel 2004 l’iniziativa politica è andata decisamente alla classe popolare. In tutto il paese le comunità locali hanno cominciato a organizzare mobilitazioni con un ritmo impressionante. Diversamente da quanto era accaduto in quasi tutti i movimenti sociali di prima generazione, la maggioranza di queste proteste sono state organizzate senza alcuna influenza delle Ong o dei progetti politici di avanguardia. Secondo la polizia, tra il 2004 e il 2008 c’è stata una media di più di dieci proteste caratterizzate da «disordini». Queste proteste erano
solitamente guidate da giovani disoccupati, spesso organizzate nelle baraccopoli, e intendevano prendere di mira politici locali e leader di partito. La tattica principale è il blocco delle strade, ottenuto dando fuoco a copertoni.

Il sociologo di Johannesburg Peter Alexander solitamente definisce queste proteste «un massiccio movimento di proteste politiche locali militanti» ma lo stato, i media e la gran parte degli accademici le definiscono sempre «proteste per i servizi». L’operazione ideologica di etichettare la ribellione popolare in corso come una serie di «proteste per i servizi» è chiara. Permette allo stato, e ai suoi alleati nella società civile, di presentare le rivendicazioni contenute nella protesta popolare come una semplice richiesta di maggiore efficienza da parte del sistema attuale. In realtà queste proteste sono spesso fortemente critiche rispetto al modo, oltre che al ritmo, della «erogazione dei servizi» e spesso includono richieste esplicite di un sistema più partecipativo.

La maggior parte di queste proteste sono nate e morte molto rapidamente, ma prese nel loro insieme costituiscono un fenomeno consistente e in crescita, di portata nazionale. Un’importante eccezione rispetto alla tendenza generale di queste proteste a non sapere o volere autosostenersi si è verificata nella township di Khutsong. Qui il tentativo dello stato di imporre dall’alto l’arretramento dei confini provinciali per spostare la township dalla provincia più ricca, il Gauteng, nella provincia più povera del Nord Ovest, si è tradotto nello scontro più aspro tra popolazione e stato nel Sudafrica del opo-apartheid.

E a Durban, nel 2005, la protesta degli abitanti di una baraccopoli ha portato alla nascita del movimento organizzato Abahlali baseMjondolo (AbM). Sin dall’inizio il movimento ha rigettato tutte le forme di politica dall’alto ed ha sottolineato che i poveri sono in grado di pensare autonomamente le loro lotte. L’AbM vedeva con favore la partecipazione della classe media, ma solo a patto che questa fosse disposta ad operare attraverso le strutture democratiche del movimento, e non dall’alto.

Inizialmente l’AbM si era proposto come voce indipendente dentro l’Anc, chiedendo terra, case e servizi, e una pianificazione urbanistica partecipativa piuttosto che tecnocratica. Ma la portata della repressione subita ha costretto il movimento a una netta indipendenza dall’Anc. Esso ha sviluppato una politica culturale profondamente democratica e gentile, in un paese dominato dal machismo. Anche se l’AbM ha deciso di non seguire la via elettorale per fare politica, lo storico congolese Jacques Depelchin, che ha avuto l’opportunità di
trascorrere del tempo sia in Sudafrica che ad Haiti, sostiene che ci sono forti parallelismi tra l’AbM e il Fanmi Lavalas.

Nel 2006 L’AbM, insieme al Landless People’s Movement e alla Anti-Eviction Campaign ha organizzato un boicottaggio elettorale con lo slogan No Land! No House! No Vote! Il boicottaggio dell’AbM è risultato particolarmente efficace. Ma il boicottaggio più efficace, che ha raggiunto un astensionismo quasi totale – ricorrendo anche all’intimidazione – è stato quello del Khutsong.

In quello stesso anno, un gruppo interno all’Anc ha cominciato a lanciare una aggressiva campagna in favore dell’elezione di Jacob Zuma alla Presidenza del partito e del paese. Inizialmente questa campagna si era tradotta in un sostegno a Zuma nel corso del suo processo per stupro, che aveva assunto presto una forma apertamente sessista ed etnicamente sciovinista.

Nel maggio 2008 la piega verso una politica più ristretta di sciovinismo etnico e nazionale ha portato a una serie di pogrom popolari contro i migranti. Tutti i movimenti, in linea di principio, hanno preso posizione contro gli attacchi ma la Treatment Action Campaign ha svolto un compito particolarmente importante organizzando il lavoro di assistenza, e l’AbM è riuscita a impedire che avvenissero attacchi nelle aree sotto il suo controllo. L’Aec è stata più lenta ad assumere una iniziativa pratica decisiva, ma nei mesi e anni successivi agli attacchi si è impegnata costantemente per negoziare la risoluzione delle tensioni, specialmente sul tema del commercio.

le proteste non si fermano

Nel settembre 2008 l’Anc ha deposto Mbeki dalla presidenza ed ha nominato il vice presidente del partito, Kgalema Motlanthe, presidente ad interim fino alle elezioni politiche del 2009, dopo le quali sarebbe diventato presidente Zuma. L’Anc stava perdendo consensi elettorali, e prima delle elezioni ha cercato di smorzare le tensioni sociali più urgenti. Ha subito abbandonato il suo atteggiamento negazionista sull’Aids e ha cercato di trasformare l’antagonismo con la Tac in una alleanza. La township di Khutsong è stata reintegrata nella provincia del Gauteng, una scelta che ha messo fine a cinque anni di ribellione.

Con l’eccezione della Treatment Action Campaign, tutti i movimenti hanno boicottato le elezioni politiche nazionali. Ma questi boicottaggi hanno generalmente avuto molto meno successo di quelli relativi alle elezioni
amministrative. Comunque, pochi mesi dopo l’elezione di Zuma la protesta popolare ha raggiunto livelli record, e nel 2010 il tasso straordinariamente alto di manifestazioni di protesta è salito ancora. Alcune ricerche hanno
dimostrato che ci sono state più proteste nei primi sette mesi del governo Zuma, che negli ultimi tre anni del governo Mbeki.

Ma, con l’aumentare delle proteste, la repressione è diventata più dura. Il governo Zuma ha militarizzato la polizia, e nel settembre dell’anno scorso una folla armata ha attaccato i principali esponenti dell’AbM nella baraccopoli di Kennedy Road a Durban, scandendo slogan di contenuto etnico. Con il pieno ed esplicito sostegno della polizia e dei principali politici dell’Anc, la folla è riuscita a trascinare via dalla baraccopoli centinaia di persone. Due giorni dopo Haroon Bhorat, un professore di economia presso l’Università di Cape Town, ha informato il parlamento sudafricano che il Sudafrica aveva sorpassato il Brasile diventando «la società con la maggiore disuguaglianza al mondo».

L’AbM si è ripreso dagli attacchi, tanto che dal 2009 ha lanciato nove nuove sezioni. Nel marzo 2010 è riuscito anche a organizzare con successo una marcia di protesta contro Zuma nel centro di Durban, e resta il più grande movimento di poveri del paese. Ma per alcuni mesi i suoi processi democratici sono stati gravemente inficiati, e questo è stato un vero danno per il movimento. Non è ancora chiaro quali saranno le conseguenze a lungo termine.

In Sudafrica gli intellettuali nazionalisti hanno avuto la tendenza a considerare decisiva la questione terriera, mentre gli intellettuali socialisti hanno avuto la tendenza a considerare decisiva la lotta dei lavoratori nelle città. Ma in realtà è stata la lotta dei poveri nelle città, molti dei quali vivono in baracche e senza un lavoro stabile, a produrre la sfida popolare più forte e militante all’Anc e al suo tentativo di usare il partito come mezzo di controllo sociale dall’alto. Il fermento politico che sta crescendo tra i poveri delle città ha assunto molte forme: alcune progressiste, altre reazionarie. Probabilmente è qui che si deciderà il futuro del paese.

il manifesto: Societa’ Marchiate a vita

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100324/pagina/11/pezzo/274400/

SOCIETÀ MARCHIATE a vita

Un mondo colonizzato dal libero mercato, le merci esercitano il dominio sulla società attraverso i segni irresistibili del loro logo. Un’intervista con lo studioso Raj Patel, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro «Il valore delle cose»

Nella aspra contesa tra valore d’uso e valore di scambio è quest’ultimo ad avere avuto la meglio. La società di mercato non riesce tuttavia ad avere la meglio su principii antichi tanto quanto è antica la presenza degli umani nel nostro pianeta: la reciprocità, la condivisione, la gratuità nelle relazioni interpersonali, la tendenza a cooperare per raggiungere un obiettivo. È attorno a questa antropologia ottimista della natura umana che sono cresciuti movimenti sociali segnati da una «politica vivente» che entra in rotta di collisione con l’ideologia del libero mercato, mentre cerca di sviluppare esperienze sociali e produttive senza attendere nessun sole dell’avvenire.

Raj Patel è uno studioso figlio del nostro tempo. Nato in Inghilterra da madre keniota e padre delle isole Fiji si è trasferito negli Stati Uniti per terminare gli studi universitari per poi insegnare nello Zimbawe, Sudafrica e Stati Uniti. Il filo rosso con cui ha tessuto la sua biografia intellettuale è rappresentato dalla partecipazione ai movimenti sociali attraverso cui legge il conflitto tra valore d’uso e valore di scambio. Ha infatti seguito con interesse l’esperienza di Via Campesina, le lotte per l’abitare nelle township sudafricane, la costituzione dei sindacati autonomi da quelli ufficiali in Cina, il conflitto dei raccoglitori di frutta nella Sun Belt degli Stati Uniti per ottenere condizioni di vita e di lavoro «dignitosi».

La lettura che dà della globalizzazione, contenuta nel suo ultimo libro Il valore delle cose (Feltrinelli, pp. 236, euro 16,50), ha un andamento epico che lo porta a non cogliere alcune contraddizioni, aporie, limiti che contraddistinguono i movimenti sociali, ma è comunque un saggio che illustra la loro capacità di sviluppare una autonomia dal potere costituito e, al contempo, la loro diffusione, come un virus, nelle società del mercato, creando così i presupposti di una più radicale trasformazione. Come questa possa accadere, cioè quali forme politiche, organizzative, quali proposte di organizzazione sociale e dell’economia mettere in campo per una fuoriuscita dalla società di mercato, sono quesiti a cui Patel non vuol rispondere, perché tocca ai protagonisti di quella «politica vivente» a cui il saggio è dedicato.

Nel suo libro, lei parla della sindrome di Anton che porta a una rappresentazione errata della realtà come una possibile cornice per contestualizzare le politiche economiche neoliberiste….

Parlo della sindrome di Anton come una metafora dello strano legame di dipendenza che tutti noi abbiamo con il capitalismo. Il nome viene da un medico, Anton Babinski, che la usò per indicare un disordine neurologico che può colpire un essere umano dopo un forte trauma al cervello. Si manifesta attraverso allucinazioni; oppure il «malato» si convince così intensamente di una cosa anche se quella non esiste. Ci sono cartelle cliniche che raccontano come uomini o donne descrivono minuziosamente un villaggio fuori dalla finestra delle loro case che non esiste; oppure lo considerano nuovo anche se è lì da decenni. Le persone che hanno questo disturbo neurologico conducono una vita di sofferenza: dimenticano il trauma che ha scatenato l’insorgere della sindrome e devono continuamente fare i conti con la distanza che intercorre tra la realtà e la rappresentazione. Uso questa metafora per ricostruire la storia dell’adesione ai sistemi di valori del capitalismo. Milioni di donne e uomini vivono in una realtà distante dalla rappresentazione distorta che ne hanno.

Prendiamo, ad esempio, il fatto che nel capitalismo la centralità del valore di scambio ha cancellato il valore d’uso di un bene o di una merce. La sindrome di Anton ha una mirabile capacità di spiegare perché una economia di mercato, orientata al profitto, continui a incontrare il consenso nonostante alcune innegabili irrazionalità e ingiustizie che la contraddistinguono. Potremmo dire che gran parte dell’umanità soffre di questa sindrome, laddove scambia l’economia di mercato come il migliore dei mondi possibili. È, appunto, come quel paziente che descriveva minuziosamente e con animo partecipe del ridente e ameno villaggio costruito fuori dalla sua finestra: peccato che quel villaggio non esisteva.

Per il pensiero neoliberale, l’homo oeconomicus è l’astrazione che indica come le radici della società stiano nell’individuo inteso come un essere razionale che cerca di massimizzare i suoi interessi. Nel suo libro, invece, lei oppone la riflessione di Karl Polany attorno alla centralità della reciprocità, dello stare insieme e della cooperazione per garantire la stabilità del legame sociale. Ma come possono le relazioni sociali funzionare da limite all’ideologia neoliberale incentrata sulla figura dell’homo oeconomicus?

L’homo oeconomicus è una creatura del diciannovesimo secolo, uno strumento inventato da John Stuart Mill per, parole sue, «dare una veste scientifica alle scienze sociali». Gli economisti di quel secolo erano eccitati dalle scoperte della fisica, in particolar modo dall’idea che gli atomi interagivano tra di loro perché governati da alcune leggi fisiche. Ma la cosa più importante è che vollero applicare le leggi della fisica alla realtà sociale per così spiegare i comportamenti dei singoli. Erano cioè convinti che esisteva una analogia tra come un atomo interagiva con altri atomi e come interagivano gli esseri umani tra di loro. Sebbene Stuart Mill alla fine della sua vita proponesse una visione più egualitaria nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze e proponesse eguali chances di partenza per tutti, la concezione dominante dell’homo oeconomicus ha ormai rotto ogni steccato in cui, nel passato, era stato rinchiuso dagli stessi teorici liberali. Più che uno strumento da usare per spiegare il mondo, è diventato un deus ex machina che deve modellare i nostri comportamenti in esso.

Il Nobel per l’economia Gary Becker, ad esempio, sostiene che il mondo funziona come un immenso mercato dove gli uomini e le donne mettono in campo strategie tese a massimizzare i loro interessi. Le conclusioni politiche a cui potremmo giungere in base a questo modello potrebbero essere molto bizzarre. Becker e altri economisti e filosofi neoliberali hanno teorizzato aste per mettere in vendita i diritti di cittadinanza o una specie di tombola dove vengono estratti a sorte i diritti individuali. Sono posizioni sconclusionate, ma è in base a queste bizzarrie che il neoliberismo ha costruito la sua egemonia, riuscendo a cancellare e relegare sullo sfondo della memoria collettiva la centralità delle relazioni sociali basate sul dono, la reciprocità, la condivisione nel nostro vivere in società.

Lei scrive che ogni uomo o donna ha il «diritto ad avere diritti». Può spiegare questo concetto?

Viviamo in un mondo dove il libero mercato è sinonimo di libertà. Il filosofo canadese Jerry Cohen ha proposto un piccolo esperimento mentale per farci comprendere in che rapporto è il lavoro salariato con l’idea di libertà insita nel concetto di libero mercato. Cohen ha proposto di immaginare di vivere in un mondo dove un uomo o una donna ricevano piccoli tagliandi al momento della loro nascita. Ogni tagliando corrisponde a un diritto: diritto a visitare la mamma ammalata, a passare per una strada, a vivere in un determinato luogo o città, a mangiare una bistecca, a un’assistenza medica in caso di malattia o incidente. Non sei però obbligato a fare ciò che è scritto sui tagliandi, che stabiliscono i limiti della tua libertà. Ma se tu cerchi di fare qualcosa che non è contemplato tra i diritti possibili, interviene la legge per impedirtelo. I tagliandi stabiliscono cioè la mappa delle tue libertà. Più tagliandi hai, maggiore è la tua libertà. Il denaro ha la stessa funzione dei tagliandi: ti consente cioè di acquistare la tua libertà. Ma che società è quella che ti costringe ad acquistare una assicurazione sanitaria, pasti e una casa decenti, la sicurezza a essere curato in caso di un incidente sul lavoro, o a comprare una protezione nel caso di un licenziamento? Una società dove, se non hai denaro, non sei un uomo, o una donna, libera. In sintesi, nel capitalismo il denaro è il diritto ad avere diritti. Nel libro, quando scrivo di avere il «diritto ad avere diritti» mi riferisco invece a quei movimenti sociali che lottano affinché il denaro non sia più l’unità di misura della libertà.

Lei cita Via Campesina, i movimenti urbani per il diritto alla casa o quello sindacale autonomo in Cina per introdurre il tema della «politica vivente», argomento molto dibattuto in Europa. Mi sembra, però, che la sua interpretazione differisca da quella che molti teorici neoliberali danno. Può spiegare cosa intende per «politica vivente»?

Sebbene il libro sia stato scritto ben prima della crisi economica, sono sempre stato interessato alle soluzioni proposte e sperimentate dai movimenti da lei citati. Uno degli elementi che ho ritrovato in tutte le esperienze che ho seguito è che sono movimenti interessati non solo a coinvolgere la popolazione, ma ad apprendere conoscenza dai processi sociali in cui hanno preso forma e si sono sviluppati. Dalle università popolari nate negli slum del Sudafrica all’Università dei poveri negli Stati Uniti alla parola d’ordine zapatista «imparare camminando», la politica che queste realtà perseguono è sempre una politica che apprende dalla realtà in cui si sviluppano conflitti e lotte sociali. Non è cioè una politica «preformattata», bensì «vivente».

La concezione di «politica vivente» a cui mi riferisco è quella che ho appreso da un uomo sudafricano, S’Bu Zikode, che lavora nell’industria petrolifera. Le sue parole la riassumono meglio di quanto riuscirei a fare io: «La politica vivente non richiede una formale educazione scolastica; è una politica che nasce nella vita di ogni giorno e in ciò che quotidianamente facciamo per cambiarla. È una politica che ognuno di noi comprende. È una politica che chiede di avere l’acqua quando non l’abbiamo, che chiede di avere energia elettrica per illuminare le nostre case e le strade dove viviamo, che chiede di non morire di fame. Non ha bisogno di grande teorie per essere spiegata, perché è comprensibile a tutti. Non è complicato capirlo per chi ha gli stessi problemi».

Il Manifesto: Township in ebollizione, l’Anc assediato a sinistra

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20091022/pagina/09/pezzo/262864/

di Stefano Liberti

Township in ebollizione, l’Anc assediato a sinistra

Rivolte nelle baraccopoli, il partito di Mandela in difficoltà
La tensione sale nelle township sudafricane. Sale sempre di più, man mano che si avvicina la data fatidica, quel 2010 in cui i riflettori del mondo saranno puntati sul paese arcobaleno che ospiterà i primi mondiali di calcio in terra africana. All’ombra dei grandi lavori di restyling delle città, si susseguono ormai con cadenza quotidiana manifestazioni in cui gli abitanti delle bidonville chiedono migliori condizioni di vita, o semplicemente l’accesso ai servizi di base, come acqua ed elettricità.

L’ultimo scoppio di violenza è avvenuto a Sakhile, una township di Standerton, a est di Johannesburg, dove uomini e donne infuriati hanno dato fuoco a pneumatici e distrutto alcuni edifici governativi, intonando sempre gli stessi slogan: «Zuma, agisci. Elimina la corruzione».

Eletto anche grazie alla promessa di essere più vicino alla gente, il presidente Jacob Zuma si trova ora stretto tra l’incudine dei movimenti sociali che lo hanno appoggiato e vogliono finalmente veder soddisfatte le proprie rivendicazioni e il martello della crisi economica, che ha visto il Sudafrica piombare in recessione per la prima volta dalla fine dell’apartheid. I suoi primi cinque mesi di governo sono quindi stati un continuo di scioperi e manifestazioni, non solo degli abitanti delle township ma anche di vari settori professionali. In quest’ultimo frangente, comunque, Zuma ha deciso di rispondere con un gesto eclatante: dopo aver convocato 280 sindaci nella gigantesca e famigerata township di Khayelitsha, a Cape Town, li ha esortati a combattere la corruzione, perché il loro governo «è inefficiente».

Al di là degli annunci a effetto, la tensione rimane comunque alta tra i movimenti sociali che si battono per il diritto alla casa e il governo sudafricano. Molte di queste associazioni – come l’Anti-Eviction Campaign, l’Abahlali baseMjondolo o l’Anti-privatization Forum – sono sotto attacco, come hanno dimostrato i recenti fatti di Kennedy Road, una township di Durban. Nella notte tra il 26 e il 27 settembre, un gruppo di circa 40 uomini armati ha preso d’assalto l’insediamento, quartier generale dell’Abahlali baseMjondolo, un movimento nato nel 2005 per i diritto alla casa, il cui nome in lingua zulu vuol dire letteralmente «quelli che vivono nelle baracche». Nell’attacco, che ha portato alla distruzione di diversi shacks – le baracche di legno con tetti di lamiera in cui vivono milioni di sudafricani – sono morte almeno tre persone. La polizia, che non è intervenuta sul momento, ha nei giorni successivi arrestato 13 militanti del movimento. Un paio di giorni dopo, il consigliere locale dell’Anc Yacoob Baig si è recato sul posto e non ha condannato le violenze. Anzi, riferendosi al movimento Abahlali, ha detto che «un elemento criminale è stato rimosso». Pian piano si è capito che l’operazione è di fatto stata condotta da uomini vicini o pilotati dall’Anc, irritato dall’eccessivo attivismo dell’associazione Abahlali baseMjondolo. Da diversi giorni, il presidente e il vice-presidente di Abahlali vivono nascosti.

«Quello che sta succedendo ai rappresentanti di Abahlali è qualcosa di gravissimo. È un avvertimento ai poveri a non organizzarsi a non essere critici o rivendicativi», scrive sul newsletter on-line Pambazuka.org Stuart Wilson, un avvocato che ha rappresentato in tribunale alcuni membri di Abalhali. Il punto è proprio questo: questi movimenti, molto presenti nelle township, danno fastidio perché rivendicano diritti e si rivolgono spesso alla giustizia. Solo venerdì scorso, la Corte Costituzionale ha invalidato lo Slum Act del KwaZuluNatal, lo stato di Durban, che consentiva un rapido sgombero degli insediamenti illegali. Una sentenza storica, che farà giurisprudenza in tutto il paese e che rappresenterà un’altra spina del fianco ai modernizzatori dell’Anc. Indovinate chi aveva fatto ricorso alla Corte costituzionale? I membri dell’Abhalali baseMjondolo.