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Sud Africa ha già perso

Sud Africa ha già perso

di Francesco Gastaldon e Filippo Mondini

A CAPE TOWN, negli ultimi mesi, sono stati espulse almeno ventimila persone dai vari «settlements» [insediamenti informali] della città per essere spostate di forza in casette costruite tra l’aeroporto e la città. L’opera di «beautification» [«abbellimento»] è cominciata. Ma questo la propaganda per i mondiali di calcio 2010 in Sud Africa non lo dice. È anche così che le autorità sudafricane si preparano a ospitare i mondiali in programma tra giugno e luglio. Nell’immaginario collettivo italiano il Sud Africa è noto per due cose: l’African national congress [Anc], il parti-to-Stato di Mandela, e i campionati del mondo 2010. Mandela e il suo partito fanno venire in mente momenti gloriosi di speranza e di liberazione, di lotta e di sacrificio. I mondiali di calcio, invece, fanno venire in mente una immagine di Africa che ce l’ha fatta, che finalmente ha raggiunto standard occidentali. E liberisti. Purtroppo questi due grandi miti, a un’osservazione meno superficiale, si rivelano ennesimi giganti dai piedi d’argilla. L’Anc ha ormai rivelato la sua natura antidemocratica. La repressione e gli omicidi politici contro il movimento sociale Abahlali baseMjondolo sono lì a ricordarlo [si vedano gli articoli pubblicati negli ultimimesi su Carta e su www.carta.org].

I campionati del mondo, al contrario, sono un mito più difficile da smontare. La potente retorica sudafricana ha fatto velocemente il giro del mondo e ormai anche in Italia si pensa ai prossimi mondiali di calcio come a un momento di redenzione collettiva, una grazia millenaria, una benedizione piovuta sul continente africano. Quello di cui non si parla, in Italia come in Sud Africa e in altri paesi, è l’impatto che questo mega-evento avrà sulla popolazione e soprattutto sui poveri. In passato i mondiali di calcio come le Olimpiadi hanno
sempre lasciato enormi debiti da pagare e strutture quasi inutilizzabili. La città di Montreal, ad esempio, ha impiegato circa trent’anni per ripagare il debito contratto in occasione delle Olimpiadi. Che cosa succederà in Sud Africa? Certamente, quello che il campionato del mondo non farà sarà ridurre le enormi disuguaglianze che il liberismo ha prodotto sul suolo africano, né eliminerà le guerre del petrolio in Darfur o nel Delta del Niger, né quelle del coltan [il minerale necessario per il telefonini] in Congo. Il campionato ha già consentito alle élites locali l’opportunità di riorganizzare le città secondo i loro interessi. Ma questo non è un fatto nuovo. Alcuni studi hanno dimostrato che i Giochi olimpici hanno consentito alle varie municipalità di sfrattare dalla città più di due milioni di persone, negli ultimi vent’anni. In occasione delle Olimpiadi di Pechino, furono sfrattate più di un milione di persone.

A proposito di nuovi stadi: poco più di un mese fa, il derby locale di Durban fra Maritzburg united e AmaZulu ha inaugurato ufficialmente il nuovo stadio Moses Mabhida, un’imponente opera architettonica, considerata uno dei migliori e più affascinanti impianti sportivi al mondo. Il nuovo stadio di Durban è uno dei fiori all’occhiello del Comitato organizzatore dei mondiali di calcio. Con più di settantamila posti a sedere, il Moses Mabhida sfoggia un arco panoramico a centodieci metri d’altezza che funge da ponte fra le due curve, con un trenino di produzione italiana che permetterà ai visitatori di ammirare il panorama della baia dall’alto, e un campo di erba verdissima importata dagli Stati uniti. Come scriveva qualche giorno fa un quotidiano locale, «nulla è stato trascurato per garantire a Durban uno dei migliori stadi al mondo». L’opera è costata 3,1 miliardi di rand sudafricani, circa duecentottanta milioni di euro, e sorge a poche centinaia di metri dal «vecchio» stadio di Durban.

In Sudafrica la gente comune chiama queste opere «white elephant», creazioni dal costo spropositato e dalla dubbia utilità: la certezza è che dopo luglio 2010 gli stadi di Durban, Cape Town, Johannesburg e altre città giaceranno inutilizzati e continueranno ad assorbire ingenti quantità di denaro per la manutenzione, sottraendolo ai programmi sociali per i più poveri. Il Sudafrica è il paese delle contraddizioni. Chissà se arrampicandosi sull’arco panoramico del Moses Mabhida si riusciranno a scorgere le abitazioni degli «shack dwellers», costruite di cartone pressato e legno inchiodato e con i tetti di lamiera che sorgono a decine di migliaia negli insediamenti informali di Durban e dintorni, proprio quegli «shack settlement» che le autorità vorrebbero «sradicare» prima di giugno per non turbare i tifosi.

La vera domanda allora è se un evento sportivo ed economico come i mondiali di calcio 2010 porterà benefici reali alla popolazione sudafricana, a quei milioni di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà o che costruiscono il proprio «shack» ai margini delle città. Naturalmente, la propaganda del governo e della Fifa, la Federazione internazionale delle associazioni di calcio, descrive la coppa del mondo come un’occasione unica per il paese. Una delle illusioni più frequenti riguarda l’aumento dell’occupazione: l’evento dovrebbe aiutare quel 31 per cento di disoccupati [dato della fine del 2009] a trovare un lavoro. Questo mito, tuttavia, si sta dimostrando infondato, e ormai anche la diecistampa sudafricana se ne sta rendendo conto. Le assunzioni, nella maggior parte dei casi, sono state a brevissimo termine, lavori estremamente precari senza alcuna prospettiva di un impiego duraturo.

Solo a Durban, migliaia di operai edili e lavoratori delle costruzioni hanno già perso il lavoro dopo il completamento del nuovo stadio, e in tutto il paese saranno decine di migliaia quelli che riceveranno come regalo del nuovo anno un licenziamento. Il portavoce di uno dei principali sindacati sudafricani ha detto pochi giorni fa che più di metà degli iscritti si ritroverà disoccupato in pochi mesi, con la fine dei progetti faraonici pre-2010.

Al di là della propaganda, dunque, per i cittadini più poveri del Sud Africa la Coppa del mondo comporta conseguenze drammatiche. Per citare solo alcuni esempi, negli ultimi anni a Durban migliaia di venditori di strada sono stati cacciati dai mercati in cui operavano da anni, per fare spazio ai venditori ufficiali associati alla Fifa e per costruire nuovi parcheggi. A Cape Town e Johannesburg le zone intorno agli impianti sportivi sono state «ripulite» da senza tetto e baracche, e nel KwaZulu-Natal il governo ha approvato il famigerato Slums Act per imprimere un’accelerazione agli sgomberi delle baraccopoli, con l’obiettivo dichiarato di fare il «lifting» alla città di Durban e renderla una «world class city». Zodwa Nsibande, tra i promotori di Abahlali baseMjondo, spiega che «lo Slums Act che abbiamo sconfitto ricorrendo alla Corte costituzionale era stato scritto pensando ai mondiali del 2010». La situazione non è migliore fuori dalle città, in zone come le aree rurali dello Zululand, sulla costa che da Durban porta fino al Mozambico. L’organizzazione Rural Network, che lotta per il diritto alla terra degli abitanti delle aree rurali, sta resistendo ai progetti di «sviluppo» per l’area di Macambini che il governo locale sta promuovendo insieme a una multinazionale con sede a Dubai. Secondi i piani, diecimila famiglie perderebbero le case, i campi, i villaggi e il bestiame, per fare spazio a parchi a tema e hotel in una zona grande sedicimila ettari. Quattro cliniche pubbliche etrenta scuole verranno abbattute per costruire le strutture.
Il tutto, naturalmente, per attirare i turisti in vista del giugno 2010. Mavuso, coordinatore del Rural Network, commenta: «Distruggere scuole e ospedali, con un’operazione calata dall’alto: questo è lo sviluppo per il governo!».

A Johannesburg, Capetown, Bloemfontein, Durban, la forza dei bulldozer prepara con prepotenza la via ai mondiali. Come a Mbombela, che ospiterà alcune partite del mondiale in uno stadio da 45 mila persone nuovo. Un impianto bellissimo, costruito su 118 ettari di terra. Peccato che fosse una terra ancestrale abitata dagli Matsafeni una tribù Swazi che è stata forzatamente deportata. Chissà se rimarrà qualche traccia della loro presenza quando i turisti andranno da Mbombela al vicino Kruger Park.

La logica del governo, per ripulire le città e ripianificare, è creare Transit Camps, dove poter ospitare, loro dicono momentaneamente, finché non saranno pronte le case, i poveri. Ma i Transit Camps in Sud Africa fanno Paura e puzzano di apartheid, segregazione e oppressione.

Erano le stesse misure adottate da Peter Botha o Frederick De Klerk [presidenti del Sud Africa negli anni ottanta] per controllare meglio la popolazione. Ma questo l’Anc se l’è scordato e ripropone le stesse misure a Durban, dove centinaia di famiglie dovrebbero essere ridislocate a Syanda, a Johannesburg, Cape Town e in tutto il paese. Clamoroso è il caso di Johannesburg, dove dovrebbero essere sfrattate diverse migliaia di persone dal centro città. Ma gli abitanti si stanno organizzando per resistere. Dalla loro parte è anche un pezzo importante delle chiese sudafricane. Il KwaZulu Natal Church Leaders Group, in un comunicato diffuso dopo la repressione di Kennedy Road in settembre [in cui furono uccise tre persone e molte furono ferite], ha scritto che i sudafricani non sono pronti per farsi prendere in giro da illusori discorsi di sviluppo. I leader religiosi, tra cui il cardinale Wilfrid Napier, sostengono che la logica che muove la coppa del mondo è dettata dagli interessi delle élites e delle multinazionali. I poveri delle periferie non hanno posto in questo modello. Mzonke Poni, leader di Abahlaly, conclude: «Non ho tempo di pensare al calcio. Ho problemi più grandi».

Gli autori del reportage

Francesco Gastaldon, laureato in cooperazione e sviluppo all’università di Bologna, ha realizzato alcune ricerche a Durban, in Sud Africa, sugli insediamenti informali della città. Filippo Mondini è missionario comboniano a Castel Voltuno [Caserta] e ha vissuto molti anni in Sud Africa. Diversi loro articoli sono leggibili su carta.org.

La politica dei baraccati contro l’apartheid che segrega i poveri

La politica dei baraccati contro l’apartheid che segrega i poveri

IL SUDAFRICA DEL DOPO APARTHEID È DIVISO IN DUE. DA UNA PARTE C’È LA VERITÀ UFFICIALE DELL’ANC, IL PARTITO-STATO, AUTORITARIO E NEOLIBERISTA. DALL’ALTRA, IL NUOVO MOVIMENTO DELLE TOWNSHIP, ABAHLALI, CHE ORGANIZZA LA POLITICA DAL BASSO.

DI FILIPPO MONDINI E FRANCESCO GASTALDON

KLIPTOWN, NELLA ZONA DI SOWETO, è ora una grande estensione di baracche fatte di lamiera e cartone, fogne a cielo aperto e un livello di disoccupazione che sfiora il 72 per cento. Ma questa ex township ha rappresentato in passato il simbolo della volontà rivoluzionaria di milioni di sudafricani. Nel 1955, il sobborgo ha ospitato i delegati del popolo chiamati a elaborare la Freedom Charter, che ha ispirato per decenni la lotta anti-apartheid. Fu un processo democratico che coinvolse i sudafricani oppressi dal regime, dalle campagne alle città. Cinquantamila volontari percorsero il paese in lungo e in largo, chiedendo alla popolazione segregata quale fosse la sua visione per il Sudafrica del futuroe ottenendo come risposte che «la terra deve essere ridistribuita», che «l’istruzione deve essere gratuita e obbligatoria», «libertà di movimento e diritto di residenza» e «l’eliminazione di tutti i ghetti».

Negli anni ottanta il manifesto fu ripreso in modo radicale da una nuova generazione di militanti che si riunirono sotto lo United democratic front. Il movimento vedeva nella democrazia non solo l’obiettivo per il Sudafrica postapartheid ma anche la propria modalità di lotta, e questo ebbe una portata rivoluzionaria incredibile. La gente organizzò comitati di strada e di quartiere, fino a rendere ingovernabili le township e minacciando seriamente la sopravvivenza del regime della minoranza bianca. Durante l’apartheid i bianchi avevano standard di vita paragonabili alla California, i neri a quelli del Congo. Dopo quindici anni di democrazia, le contraddizioni non si sono attenuate. Secondo i dati economici più recenti, il Sudafrica è il paese più ineguale al mondo. Nonostante le speranze che la transizione aveva portato con sé, per la maggioranza della popolazione le condizioni di vita sono peggiorate, dal 1994 a oggi.

All’interno del Sudafrica esistono ancora due mondi distinti, e questa contraddizione rende la giovane democrazia di questo paese un gigante dai piedi d’argilla. L’African national congress [Anc, il partito-Stato al governo dal ’94] è di fatto responsabile di tutto questo, con le sue promesse non mantenute e con i suoi tradimenti degli ideali della lotta. Ma la storia del Sudafrica post-apartheid parte da lontano, dall’epoca dei negoziati che segnarono la fine del regime razzista. I negoziati si svilupparono lungo due binari, uno politico e uno economico. Mentre l’opinione pubblica si concentrava sui colloqui politici, sugli incontri tra l’Anc di Nelson Mandela e il National Party di De Klerk, gli altri negoziati venivano definiti «tecnici» e «amministrativi ». Il delegato principale per l’Anc era Thabo Mbeki, che aveva trascorso parte dell’esilio a Londra imparando lezioni di liberismo dal governo Thatcher. Il risultato fu che l’Anc conquistò il potere politico, abbandonando però i principi della Freedom Charter e sposando il credo delle politiche economiche neoliberiste.

La Banca centrale, indipendente dal governo, fu affidata a Chris Stals, lo stesso uomo che l’aveva guidata sotto l’apartheid. Invece di nazionalizzare le miniere, come era stato promesso durante la lotta, Mandela e Mbeki iniziarono a incontrarsi regolarmente con Harry Oppenheimer, ex presidente di Anglo-American e De Beers. Soprattutto, l’Anc accettò di pagare il debito internazionale contratto dal governo precedente, assicurando stabilità finanziaria ai grandi investitori e causando l’impoverimento di grandi parti della popolazione. Così, invece di compensare le vittime del la repressione – come chiese la Commissione di Verità e Riconciliazione presieduta da Desmond Tutu – la nuova democrazia ha ceduto alle richieste del Fondo monetario e della Banca mondiale. Con l’avvento di Mbeki alla presidenza [nel 1999] la svolta liberista diventa aperta e radicale: le nuove politiche economiche del Gear [Growth employment and redistribution programme] hanno portato a privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, flessibilità nel mercato lavoro, più libertà di scambio e meno controlli sui flussi di denaro. Le conseguenze sono state devastanti: per citare solo alcuni esempi, dalla fine dell’apartheid sono stati collegati alla rete idrica nove milioni di persone, mentre i tagli ne hanno colpite dieci milioni; il tasso di disoccupazione a novembre 2009 è al 31 per cento; la povertà è più profonda e istituzionalizzata che durante il regime segregazionista e la ricchezza sempre più polarizzata, con un gruppo ristrettissimo di persone che detiene la maggior parte del reddito nazionale; quasi un milione di persone sono state sfrattate dalle zone rurali e il numero degli

abitanti delle baraccopoli è aumentato vertiginosamente, e secondo alcune stime recenti circa un sudafricano su sei vive in un insediamento informale. Il movimento degli «shack dwellers» Abahlali baseMjondolo nasce alla fine del 2005, in questo contesto di rabbia e senso di tradimento delle promesse dell’Anc, inspirandosi agli ideali della lotta anti-apartheid dell’United democratic front [Udf]. L’ideale centrale della lotta dell’Udf era che il Sudafrica doveva appartenere a tutti quelli che ci vivevano, a tutti quelli che lottavano contro il regime. La lotta per una società non-razziale non poteva essere concessa dall’alto, ma andava costruita giorno per giorno attraverso l’azione politica popolare. Una questione cruciale, per il Sudafrica post-apartheid, è il passaggio dall’idea di nazione costruita su basi non razziali a quella della «rainbow nation»: l’idea astratta della «nazione arcobaleno» è stata costruita dalle narrative dello Stato, calata dall’alto da tecnocrati ed «esperti». Come sostengono diversi studiosi, ad esempio Richard Pithouse e Franco Barchiesi, a quindici anni dalle prime elezioni del ’94 appare evidente che per l’Anc il post-apartheid è un’epoca «postpolitica», in cui la solidarietà nazionale della «rainbow nation» deve prevalere sulle rivendicazioni sociali e politiche. L’unica «vera lotta», quella contro l’apartheid, è stata già vinta e la narrazione ufficiale tenta di riscrivere la storia della resistenza come una lotta condotta solo dall’Anc. Secondo l’ideologia ufficiale, ogni critica al governo e all’Anc equivale a un tradimento dei propri liberatori. E proprio i «liberatori» dell’Anc cercano di sfruttare il mito della Nazione e della lotta all’apartheid per nascondere la crescente povertà, la gestione verticistica e tecnocratica del potere e i tradimenti rispetto alle promesse fatte all’indomani della presa del potere. In quest’ottica, il cosiddetto «service delivery», la fornitura di servizi di base alle baraccopoli e ai cittadini più poveri, è una sorta di dono erogato dal- l’alto, in modo paternalistico e autoritario. Abahlali ha ben chiaro il problema di questa gestione del potere, e ne discute ampiamente nelle assemblee del movimento. Secondo Zodwa Nsibande, attivista di Abahali, «le comunità degli insediamenti devono essere consultate dalle autorità per quel che riguarda i piani di fornitura di servizi o costruzione di case popolari. Ma i politici non hanno rispetto per l’intelligenza dei poveri, credono che non siamo in grado di pensare autonomamente». Il presidente eletto del movimento, S’bu Zikode, dice che «il pensiero tecno- cratico esclude la maggioranza delle persone e viene supportato dalla violenza quando i poveri insistono sul loro diritto di parlare e di essere ascoltati. Da una parte c’è un consulente con il suo computer portatile e dall’altra un giovane ubriaco con una pistola in mano. Possono sembrare a prima vista diversi, ma entrambi servono lo stesso sistema, un sistema dove i poveri devono essere buoni e starsene al loro posto senza pensare o parlare». Nel post-apartheid si è passati dai comitati popolari di quartiere alla «società civile», formata da organizzazioni che servono a creare consenso intorno a interessi specifici. La lotta di Abahlali è radicalmente diversa da quella dei tecnocrati delle Ong. Alla «politica dei partiti» Abahlali contrappone una politica popolare, che i membri del movimento descrivono come una «politica vivente»: l’idea di un modo di fare politica che tutti possono capire e alla cui definizione tutti possono partecipare, opposto in modo radicale al linguaggio burocratico e tecnico che viene usato dalle autorità municipali, dai partiti politici e dalle Ong. La politica di Abahlali, spiegano gli attivisti, abbraccia l’universale. Al centro non ci sono interessi particolari ma i poveri, le persone. Le verità forgiate dalla lotta, elaborate e pensate democraticamente nelle assemblee, sono universali. Dopo le recenti violenze contro il movimento [che Carta ha raccontato: www.carta.org] S’bu Zikode ha detto che «questa democrazia non si cura dei poveri, perciò è nostra responsabilità farla funzionare per tutti i poveri, costruire la forza dei poveri e ridurre quella dei ricchi. Dobbiamo lottare per democratizzare tutti i posti nei quali viviamo, lavoriamo, studiamo e preghiamo». Un’altra caratteristica fondamentale della lotta del movimento è la sua fedeltà. Nella teorizzazione del filosofo politico Alain Badiou, la fedeltà è il «tentativo di sostenere nel pensiero le conseguenze dell’evento». È il rifiuto di tornare allo «status quo ante». La «fedeltà all’evento» non è scontata: richiede un «interesse-disinteressato» da parte dei partecipanti. Non c’è certezza, in questo processo. Se le «avanguardie» politiche conoscono la strada da percorrere, il movimento non la conosce a priori. I membri di Abahlali affermano che «l’alternativa, la direzione della nostra lotta, uscirà dal nostro pensiero, dalle riflessioni che facciamo insieme nelle nostre comunità, in cui ci educhiamo a vicenda e pensiamo la nostra lotta». Abahlali baseMjondolo, quindi, non chiede allo Stato l’elemosina di servizi pubblici e abitazioni popolari. Le richieste pratiche del movimento puntano a vedere realizzati i diritti sociali fondamentali promessi nella Costituzione sudafricana. Le rivendicazioni del movimento sono più pro fonde, e puntano a cambiare i termini stessi dell’inclusione dei poveri della società sudafricana, per trasformare il regime tecnocratico del post-apartheid in una democrazia realmente partecipata da tutti i cittadini. La lotta è per affermare la dignità dei poveri in senso più ampio, sostenendo con forza la loro capacità di esprimersi sulle politiche e sulle scelte che riguardano le loro vite.

Abahlali. Scrivete una e-mail di protesta all’ambasciata sudafricana

http://www.carta.org/campagne/dal+mondo/africa/18620

Abahlali. Scrivete una e-mail di protesta all’ambasciata sudafricana
Filippo Mondini
[22 Ottobre 2009]

Pubblichiamo la lettera con la quale Filippo Mondini, missionario comboniano a Castel Volturno ma che ha vissuto molti anni in Sudafrica, chiede di sostenere il movimento delle persone che vivono nelle baraccopoli Abahlali scrivendo una email di protesta all’ambasciata sudafricana.

«Cari amici e care amiche, come sapete stiamo seguendo le vicende del movimento Abahlali baseMjondolo di Durban, che ha subito qualche settimana fa una violenta repressione, nella quale tre persone sono morte e migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case e vivono ora da rifugiati nella loro stessa città. I leader del movimento sono stati minacciati di morte, e sembra evidente che alcuni membri locali dell’African National Congress [Anc] abbiano un ruolo in quanto è accaduto. Potete trovare altre informazioni su www.abahlali.org e nel sito di Carta [i link sono nella colonna di destra].
Il movimento sta raccogliendo la solidarietà di moltissime associazioni, gruppi, movimenti, chiese, accademici e comuni cittadini in tutto il mondo.
Visto che le autorità sudafricane sono molto interessate all’immagine internazionale del Paese in vista del mondiali di calcio 2010, pensiamo che sia importante scrivere anche dall’Italia per far sentire la nostra contrarietà per ciò che accaduto e per chiedere che le autorita’ e l’Anc si impegnino per garantire democrazia e pluralismo nelle baraccopoli.
Vi alleghiamo una lettera da inviare via email all’ambasciata sudafricana a Roma. Speriamo che di fronte a molte mail di cittadini italiani, le autorità sudafricane sentano un po’ di «fiato sul collo» e vedano che «il mondo sta guardandando».
E’ questione di un minuto: copiate il testo, firmaltelo inviatelo a sae@sudafrica.it e rome.political@foreign.gov.za
Scriveteci, per cortesia, anche a abmsolidarity@gmail.com così possiamo tenere conto di quante mail vengono inviate.
Non e’ un’iniziativa inutile: facciamo capire al Sudafrica che il mondo sta guardando.
Noi, e anche Abahlali, vi ringraziamo.

Francesco Gastaldon
Filippo Mondini

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Sua Eccellenza Ambasciatrice Mtintso,
Sto seguendo con preoccupazione le notizie che sono riportate sui giornali sudafricani e che mi giungono da amici che si trovano in Sudafrica.
Mi riferisco alle violenze che sono avvenute a più riprese nell’insediamento informale di Kennedy Road a Durban a partire dalla notte del 26 settembre 2009.
Dai resoconti dei giornali è evidente che le violenze sono state dirette verso membri e simpatizzanti del movimento Abahlali baseMjondolo attivo nell’insediamento (nel quale sorgeva anche l’ufficio del movimento). Oltre a tre morti accertati, il presidente e il vicepresidente di Abahlali baseMjondolo vivono nascosti dopo aver ricevuto minacce di morte, le abitazioni di molti membri del movimento sono state distrutte e circa un migliaio di persone sono state costrette a lasciare l’insediamento e ora vivono come rifugiati nella loro stessa città.
L’attacco è stato perpetrato da una folla di circa quaranta persone armate, ma nessuno nei componenti di questa “milizia” è stato arrestato. Invece, le uniche persone che sono detenute sono proprio membri del movimento Abahlali baseMjondolo, è cioè il gruppo vittima dell’attacco.
Più di tutto, mi preoccupa il ruolo ambiguo della polizia locale e dei dirigenti locali dell’African National Congress (Anc). Questi hanno dichiarato alla stampa che l’insediamento di Kennedy Road è stato “liberato” da Abahlali baseMjondolo e sono apparse cronache che raccontano di riunioni dell’ANC a Kennedy Road nei giorni dopo l’attacco. Non è un mistero che l’ANC non veda di buon occhio Abahlali baseMjondolo: il partito e le autorità locali (come il consigliere locale Yakoob Baig) hanno forse un ruolo in quanto è accaduto?
Come amico del popolo sudafricano, non posso accettare che a Durban avvengano episodi di violenza politicamente motivata. Questo non è degno della storia del Sudafrica e non getta buona luce sul Paese che dovrà ospitare i mondiali di calcio 2010.
Mi unisco alle richieste di Abahlali baseMjondolo, dei leader religiosi sudafricani, di associazioni, ONG, accademici e semplici cittadini di tutto il mondo, e per Suo tramite chiedo alle autorità sudafricane che:
– venga aperta un’indagine seria e imparziale sulle violenze e sull’operato della polizia locale;
– l’ANC si impegni a garantire il pluralismo politico negli insediamenti e condanni le violenze a danno di Abahlali baseMjondolo;
– le persone che hanno perso la casa e i loro averi vengano sostenute dallo Stato, e che sia fornita loro al più presto una sistemazione alternativa;
– che venga restaurata la democrazia e il diritto di organizzarsi a Kennedy Road e in tutto gli insediamenti informali di Durban.
Certo che vorrà dare alla mia comunicazione il peso che merita, porgo distinti saluti.

Sudafrica. Vittoria dei baraccati contro lo «Slum act»

http://www.carta.org/campagne/dal+mondo/18566

Sudafrica. Vittoria dei baraccati contro lo «Slum act»
Filippo Mondini
[15 Ottobre 2009]

Il documento ufficiale con cui Abahlali baseMjondolo annuncia la vittoria alla corte costituzionale è intitolato: «Abbiamo vinto alla corte costituzionale pagando un prezzo altissimo». Dopo la violenta repressione messa in atto dall’Anc, dopo i morti e i rifugiati costretti a fuggire da Kennedy Road, è arrivata la vittoria contro lo «Slum act».
La corte ha dichiarato questa legge incostituzionale e, forse molto di più, ha vendicato la voce della gente della baraccopoli. La battaglia contro questa legge è iniziata già nel 2007, quando nelle baraccopoli in rivolta si è iniziato a discutere e a pensare forme di resistenza. «Il nostro ruolo è di collegare l’operazione ‘slum free cities’ con il mondiale del 2010. Dobbiamo dichiarare il 2010 un anno senza sfratti» affermava Sbu Zikode in uno dei primi incontri a Kennedy Road.

L’idea quindi di avere un mondiale in città «pulite» senza poveri o baracche sembra più lontana. Il movimento farà sentire la sua voce e la shock economy troverà qualche difficoltà in più. Ancora una volta l’opposizione alla legge non è basata su una semplice richiesta di servizi. Nelle discussioni si è arrivato alla consapevolezza che le baraccopoli sono «comunità» e non «Slums». Mazwi dice che «E’ più facile fare arrivare i bulldozer a distruggere slums, ma se iniziamo a dire che siamo delle comunità l’ottica con cui verremo guardati cambierà radicalmente» . Ancora una volta viene ribadita la dignità della gente e della lotta. Non basterà qualche fontanella in più per fare tacere queste donne e uomini degni. Non basterà nemmeno l’Anc. Se ieri piangevamo, oggi lasciateci festeggiare.